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La città proibita, recensione: il furore di Mainetti colpisce ancora

Amore e kung fu a Roma, nel nuovo film di Gabriele Mainetti

Pubblicato il 06 marzo 2025 di DocManhattan

Il “questo, qui da noi, non si può fare” è il più grande e assurdo dei limiti che il cinema italiano si autoimpone ormai da decenni. Un dogma, a prendere per buono il quale, non avremmo mai avuto i western di Leone – che hanno spiegato agli statunitensi come portare linfa vitale nuova in un genere che li rappresentava come pochi altri – gli horror di Fulci e Bava, o Marcello Mastroianni e Ursula Andress in un film di fantascienza surrealista di Petri. Ecco, fortunatamente a Gabriele Mainetti il “questo, qui da noi, non si può fare” non è mai interessato.

Sin dai suoi primi corti, Mainetti si è concesso di reinterpretare il mito di Lupin III e portare il wrestling dell’Uomo Tigre nei sogni di un bambino di periferia. Con i suoi due film precedenti, ha pescato un super-eroe nelle acque radioattive del Tevere (Lo chiamavano Jeeg Robot) e plasmato un gruppo di X-Men romani alle prese con i nazisti e un partigiano calabrese (Freaks Out). Con la sua ultima fatica, La città proibita, in sala dal 13 marzo (dopo un’anteprima l’8), ha forse abbassato il tiro? Ridotto la portata delle sue ambizioni? Ricondotto le sue storie in un alveo più tradizionale, ordinario? Manco per nulla: kung fu a Roma, baby. E non per modo di dire.

la città proibita Gabriele Mainetti recensione

L’URLO DI MEI TERRORIZZA ANCHE PIAZZA VITTORIO

Anche ne La città proibita, il “parla di quello che sai” si fonde per Gabriele Mainetti con il suo amore per le pellicole di genere, le tante sfumature del cinema d’azione. Dopo i super-eroi, tocca quindi alle pellicole d’arti marziali provenienti dall’Oriente, trasposte nel più adatto dei quartieri romani. La storia è infatti quella di Mei (Yaxi Liu), una ragazza cinese tosta come l’adamantio, che arriva a Roma per cercare la sorella scomparsa. Qui si imbatte per una serie di eventi in Marcello (Enrico Borello), che porta avanti il ristorante della sua famiglia all’Esquilino, in compagnia della madre (Sabrina Ferilli) e sotto lo sguardo per nulla disinteressato di un criminale locale, amico di famiglia (Marco Giallini).

Ora, non lasciatevi ingannare dal titolo provvisorio con cui si è iniziato a parlare di questo film due anni fa. Quel Kung Fu all’amatriciana va infatti letto esattamente come “spaghetti western”: La città proibita non è in altre parole una parodia, ma un film di arti marziali a tutti gli effetti, ma fatto da e con italiani. La cosa migliore delle opere di Gabriele Mainetti è proprio che quell’amore per altri tipi di cinema e quel genuino attaccamento per la sperimentazione e commistione di spunti diversi si traduce in film di genere fatti e finiti, non in commedie che prendono più o meno bonariamente in giro gli stessi. Così, come Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out erano due film di super-eroi in tutto e per tutto, La città proibita non è un nuovo Delitto al ristorante cinese o un Grosso guaio all’Esquilino con Lillo, perché non è una commedia.

Anche qui siamo a Roma, in mezzo ad attori e ambientazioni molto romani, ma quella di Mei e Marcello ha tutti i crismi di una dolorosa, frenetica, spettacolare e a tratti brutale storia di kung fu, semplicemente ambientata a Piazza Vittorio anziché a Hong Kong, nella Cina continentale o sull’isola di Mr. Han.

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ONCE UPON A TIME IN CHINA(TOWN)

Anche se il titolo coincide con quello di un film in costume di Zhang Yimou del 2006, La città proibita di Mainetti non è un wuxia, come La tigre e il dragone. È un film d’arti marziali crudo e violento, di quelli che per funzionare hanno bisogno di coreografie azzeccate, combattimenti feroci e un protagonista che risulti credibile. Che cioè faccia sembrare possibile che un tipo (qui una tipa) stenda decine di avversari, usando le mani e tutto quello che trova.

Il pesce o le rose del mercato, come la padella in cucina, possono sembrare cose buffe, ma sono tutte soluzioni codificate di quel tipo di cinema asiatico, e la Mei del film si muove in questo contesto molto bene, grazie a delle coreografie ben studiate. Il sangue cola a fiumi e i denti finiscono a decorare il pavimento. E questo è importante perché è quello a cui guardano i fan, e ha evidentemente guardato lo stesso Mainetti. C’è tanto dei film con Donnie Yen come Ip Man, mentre l’atmosfera generale a tinte fosche rimanda un po’ a Lady Vendetta, il capitolo finale della trilogia della vendetta di Park Chan-wook.

Yaxi Liu non ha all’attivo molti lavori. È stata la controfigura della protagonista nel Mulan live action ed è apparsa un anno fa in un film d’azione di Suiqiang Huo, Chong jian tian ri (noto anche con il titolo internazionale Second Life). Ma, indipendentemente dal suo curriculum, funziona dannatamente bene come implacabile, silenziosa e inarrestabile Erinni, con il corpo pieno dei segni delle battaglie precedenti.

HEROES OF THE (ROMA) EAST

La fotografia di Paolo Carnera è bellissima, e pure qui si rifà a soluzioni tipiche del genere. La luce, nello scontro finale (perché c’è ovviamente anche uno scontro finale) è tutta bianca, non più colorata, a simboleggiare la purificazione di Mei, che ha completato la sua vendetta e non dev’essere più una furia incarnata. La componente crime della storia permette di aumentare lo spessore di alcuni personaggi, come quello di Giallini, e aiuta a svicolare con garbo da uno dei tranelli tesi con più facilità dai film di arti marziali, cioè che il tutto si concluda semplicemente con la vittoria dell’ultimo scontro e sfoci in un anticlimax, dopo due ore e un quarto di crescendo rossiniano della violenza.

E tutto questo, dicevamo, coesiste senza problemi con una foto di Al Bano e Vacanze Romane, il peso esistenziale di una Sabrina Ferilli vedova e il rapper Maggio, Mina e i neon alla John Wick. E lo fa perché Mainetti non ha paura di citare, mettendoci però sempre del proprio. Il risultato è qualcosa che è in definitiva più facile accostare, per tematiche e ritmo, a Kill Bill o The Raid che a Lo chiamavano Jeeg Robot.

Guardatelo, La città proibita. Perché se lo merita, ma pure perché, se non lo fate, poi non avrete più alcun diritto di lamentarvi del fatto che di italiano, al cinema, ci sono sempre gli stessi film.