Il Gattopardo di Netflix sarà probabilmente un grande successo in termini di ascolti. Ha tutto per esserlo. Allo stesso tempo, la serie firmata da Tom Schankland, Giuseppe Capotondi e Laura Luchetti certifica come il genere storico sia sostanzialmente defunto. Tutto ciò che le piattaforme e il grande schermo ci donano ormai sono mere rappresentazioni del nostro presente sotto mentite spoglie, senza alcuna capacità di trasportarci realmente nel passato.
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, in qualità di romanzo storico, se la gioca solo con I Promessi Sposi di Manzoni per importanza, nel nostro panorama. Luchino Visconti nel 1963 ne trasse spunto per creare il vero, grande kolossal del nostro cinema, un’opera tanto deludente al botteghino quanto capace di rinnovare il genere, diventando un punto di riferimento anche per i registi della New Hollywood. Tutto questo aiuta a far capire quanto alte fossero le attese per Il Gattopardo di Netflix, guardato però con un certo sospetto, per non dire apprensione, alla luce di come il genere storico oggi sia stato completamente stravolto.
Una volta si cercava di trasportare il pubblico in un passato lontano, qualcosa di non legato solamente ai costumi, elmi o scenografie, ma alla semantica stessa del racconto. Ed è questo a mancare, non solo ne Il Gattopardo, ma in tutti i prodotti di questo tipo da un po’ di tempo a questa parte.
Il problema, fin dall’inizio, non è quanto il cast, formato da Kim Rossi Stuart, Benedetta Porcaroli, Saul Nanni, Deva Cassel, Mario Patané, sia raramente in parte o credibile nei panni dei personaggi di Lampedusa. Gli attori fanno ciò che gli viene chiesto, e ciò che è stato chiesto ne Il Gattopardo è contribuire a una modernizzazione di sguardo totale, un rendere il passato una sorta di copia carbone del nostro presente.
Questo in virtù di una (supposta) superiorità e perfezione del nostro tempo, che si manifesta non solo con una massiccia inclusività nel casting (che di per sé non è quasi mai un problema reale) ma soprattutto con personaggi, atmosfere, dialoghi e tematiche che con l’ambientazione originale hanno davvero poco a che fare.
Non bisogna essere laureati in Storia per sapere che l’alta società siciliana di metà Ottocento era quanto di più distante ci potesse essere da noi. Questo rifiuto del passato e di una sua rappresentazione che vada oltre la mera forma, paradossalmente, è diventato una prassi con un’ucronia dichiarata: quella di Bridgerton.
Il motivo è semplice: catturi un pubblico più grande. Se unisci il feuilleton con la narrazione glamour, avrai sia il pubblico under 25 che quello più maturo, affezionato a The Crown, Downton Abbey o al cinema di James Ivory.
Non si tratta solo di Netflix. Apple TV+ ha fatto lo stesso con The Buccaneers, serie TV tratta dal romanzo di Edith Wharton, di fatto creando una sorta di clone di Gossip Girl ambientata però all’inizio dell’Ottocento, nell’alta società americana e inglese.
Altri esempi tipici di una modernizzazione che va a stravolgere il genere sono serie come Leonardo, La legge di Lidia Poët, Medici, The Great, Sanditon, My Lady Jane. Il problema manco è l’ucronia in sé, visto che Bridgerton è paradossalmente molto più fedele al genere originale del romanzo storico. Si tratta piuttosto di un iter produttivo che ha fatto sì che non vi sia assolutamente differenza ormai rispetto a serie o film ambientati ai nostri giorni.
Insomma, siamo ormai distanti dai tempi in cui Martin Scorsese con L’età dell’innocenza ci guidava con suprema eleganza e profondo realismo in un’altra epoca, un mondo completamente differente per ciò che riguardava le relazioni tra i sessi, i rituali sociali, la stessa concezione dell’esistenza.
Il Gattopardo di Netflix, con il suo tono gridato dall’inizio alla fine, è fatto a immagine e somiglianza di un’era, la nostra, dove il presente lascia sempre il posto all’immediato futuro, mentre ciò che abbiamo alle spalle non conta. Tutto deve essere ricondotto a noi, nonché alla nostra narrazione da social media, fatta di velocità e accelerazione costante.
Ma la vita del passato non era così, era fatta di tempi morti, silenzi, lentezza. Il risultato, nel 90% dei casi, non può essere che deludente, così come è deludente Il Gattopardo, privo totalmente dell’ambiguità, della complessità tematica, dell’analisi politica e sociale che Tomasi di Lampedusa concepì.
I personaggi poi, sono ridotti a essere portatori di una rappresentazione manichea e moraleggiante della società e dell’uomo. Siamo oltre il kitsch senza ritegno de Il Gladiatore 2 o altre operazioni simili.
Eppure, per tutti questi motivi, Il Gattopardo è una serie perfetta per il pubblico generalista di oggi, con un basso indice di attenzione, che ama la ripetitività. Ma dal punto di vista artistico, è l’ennesima delusione, pervasa anche da una profonda arroganza nel modo in cui non tiene minimamente conto di un capolavoro come il film di Visconti.
Ma in fondo, per chi ha assistito a quel disastro chiamato Gli anelli del potere, questa purtroppo non è neanche la prima volta.