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Il caso Belle Steiner, e quello del regista Benoît Jacquot

Pubblicato il 04 marzo 2025 di Lorenzo Pedrazzi

C’è un disclaimer, alla fine de Il caso Belle Steiner, in cui la produzione afferma di condannare qualunque tipo di violenza sulle donne e sui minori. A prima vista si direbbe una precisazione superflua: secondo questa logica, ogni noir o thriller dovrebbe prendere esplicitamente le distanze dai fatti delittuosi che racconta, come se il pubblico non conoscesse la differenza tra il punto di vista degli autori e quello dei personaggi. L’esigenza di apporre un disclaimer nasce però dalle accuse a Benoît Jacquot, il regista del film, denunciato per violenza sessuale dalle attrici Judith Godrèche, Isild Le Besco, Vahina Giocante e Julia Roy. Il caso è scoppiato nel 2024 (anche se Valentine Faure fece il nome di Jacquot già nel 2020 in un’inchiesta del New York Times), ed evidentemente la produzione è corsa ai ripari, tentando di separare l’opera dalla pessima fama del cineasta.

Certo, la trama del film non aiuta. Il caso Belle Steiner è infatti basato su La morte di Belle, romanzo di Georges Simenon uscito nel 1952, che Jacquot – anche sceneggiatore con Julien Boivent – traspone in modo piuttosto fedele, epilogo escluso. L’ambientazione si sposta però dagli Stati Uniti alla Francia, in una città non meglio identificata dove abitano Cléa (Charlotte Gainsbourg) e Pierre Constant (Guillaume Canet). I due coniugi stanno ospitando la figlia di un’amica di Cléa, l’adolescente Belle Steiner, che frequenta lo stesso liceo dove Pierre insegna matematica. Una sera, mentre Cléa è a casa di amici e Pierre sta correggendo dei compiti nel suo studio, Belle torna prima del previsto da un appuntamento al cinema: il giorno seguente viene ritrovata senza vita nella sua stanza, completamente nuda e con segni di strangolamento sul collo. Poiché Pierre era da solo in casa, i sospetti si concentrano su di lui, ma non ci sono prove per incriminarlo. Intanto, la città comincia a guardarlo con diffidenza, compresi i suoi studenti. Lui però ha un’aria costantemente apatica, come se non fosse in grado di reagire alla situazione. Solo Cléa rimane al suo fianco, pur interrogandosi sulla passività del marito.

Attraverso Pierre, il film instaura un rapporto dialettico fra colpevolezza e innocenza, tipico di Simenon e del noir in generale. Jacquot, però, sceglie di preservare l’ambiguità fino all’ultimo, ed è anche per questo che modifica parzialmente il finale: la verità è inconoscibile, come nel mondo in cui viviamo. Se i suoi modelli cinematografici (tra cui L’alibi era perfetto di Fritz Lang) giungevano sempre a una risoluzione definitiva, la realtà contemporanea suggerisce invece un approccio più disilluso, in tempi di processi mediatici e post-verità. L’atmosfera cupa e dolente fa il resto, contribuendo a una trasposizione che non necessita di grandi cambiamenti per dialogare con il presente. Anche nel romanzo, Belle era oggetto di discorsi morbosi per la sua condotta libertina, sfuggendo così alla retorica della “brava ragazza”: in altre parole, il pregiudizio più comune non vede in lei una “vittima ideale” su cui costruire narrazioni ricattatorie. Oggi parleremmo di slut-shaming, ed proprio quello che succede nel film (come nella realtà) quando la vittima viene colpevolizzata per le sue abitudini sessuali. A ben vedere, in settant’anni non è cambiato molto.

Tornando a Pierre, vengono in mente altre storie di uomini perseguitati dalla legge e dall’opinione pubblica, come Il sospetto di Vinterberg, anche se qui l’innocenza del protagonista non è scontata. C’è inoltre da chiedersi se Jacquot, sentendosi perseguitato, non abbia voluto sfogare la sua frustrazione attraverso il cinema, per quanto ipocrita possa sembrare (in fondo, è già successo in passato con altri registi). Sia chiaro, le accuse sono diverse, e Jacquot non è stato ancora condannato; ma la parziale sovrapposizione tra lui e il protagonista desta sicuramente qualche interrogativo. Comunque sia, un film non appartiene solo al suo regista: è un’opera d’arte collettiva, frutto di molteplici lavoratori che non meritano di essere penalizzati per le colpe altrui. Non è difficile, in tal senso, comprendere l’esigenza di quel disclaimer prima dei titoli di coda. Può sembrare goffo, ma qualunque intervento per circoscrivere i danni spesso lo è.