Quando uscì in sala per la prima volta, 35 anni fa, Blue Steel fu trattato con sufficienza da parte della critica, fu anche un flop al botteghino. Eppure, nel corso degli anni, per fortuna il film di Kathryn Bigelow è stato giustamente rivalutato come un neo-noir di grande profondità ed estetica, con una delle protagoniste più innovative del cinema di quegli anni.
Blue Steel quando arrivò in sala fu il terzo lungometraggio firmato da Kathryn Bigelow, quello in cui la regista dimostrò di avere ormai uno stile registico definito, in cui la nuova dimensione emergente del videoclip, si fondeva con capacità unica di essere intimo, così come di creare suspense e sublimare il concetto di azione. Ma andiamo con ordine. La Bigelow assieme a Eric Red crea uno script con cui omaggiare sia il genere neo-noir, sia registi quali Michael Mann, Walter Hill e Sam Peckinpah, che hanno rinnovato in quegli anni l’estetica dell’azione sul grande schermo, senza però far venir meno verosimiglianza e drammaticità. Protagonista è un giovane recluta del dipartimento di polizia di New York: Megan Turner (Jamie Lee Curtis). Megan sventa una rapina in un Jet Market, uccidendo l’aggressore. Tra i clienti atterriti presenti, c’è però anche il broker Eugene Hunt (Ron Silver), un uomo disturbato e sadico, che diventa ossessionato dalla giovane agente.
Nascosta la pistola del rapinatore (mettendo nei guai con gli affari interni Megan), la usa per commettere una serie di omicidi casuali, per poi arrivare anche a sedurre la donna. Rivelate le sue vere intenzioni, comincerà a perseguitarla in modo sempre più terrificante. Già in questi pochi elementi, si evidenzia la natura atipica di Blue Steel, con cui la Bigelow sovverte e assieme recupera i canoni classici del genere. La protagonista è sì una donna, ma è in tutto e per tutto simile ai protagonisti maschili del passato. Assediata da solitudine, un carattere spigoloso ma integerrimo, Megan si muove in una giungla d’asfalto che la Bigelow ci tratteggia a tinte fosche, quasi sempre notturne, con al suo fianco solo il Detective Nick Mann (Clancy Brown), a credere alla sua innocenza. Ma è anche una donna, e in quanto tale la Bigelow la rappresenta come assediata da pregiudizi, maschilismo, da una situazione familiare complicata, con un padre manesco e una madre succube. Tutti elementi che presi assieme ci aiutano a comprendere come e perché Blue Steel sia stato importante: ci ha donato un’eroina al femminile totalmente diversa dalla norma pur innovativa di quegli anni.
Già all’epoca la critica non sbagliò nell’indicare un fortissimo legame tra Blue Steel, la sua protagonista, è Halloween di John Carpenter, che aveva lanciato proprio la Curtis. Abbiamo un serial killer sadico temibile, la distruzione della famiglia, del focolare domestico, l’immagine di una metropoli pericolosa ed infida, ma soprattutto la lotta di una donna che diventa oggetto di un’aggressione dalla connotazione fortemente sessuale e maschilista. Ron Silver è bravissimo nel dipingere un personaggio che rappresenta in tutto e per tutta la prevaricazione tipica del decennio appena conclusosi, quello reaganiano, in cui la donna era una mera estensione della fantasia sessuale maschile. Diventa quindi centrale come la Bigelow metta sovente in mano la pistola alla Curtis, quasi a schermarla non solamente dal villain, ma dall’idea che in quanto donna è indifesa, facendone una sorta di prolungamento del suo corpo e il simbolo di un’emancipazione reale.
La Bigelow per inciso aveva contribuito alla nascita anche di un’altra eroina cinematografica importantissima: la Sarah Connor di Terminator, che assieme alla Tenente Ripley di Alien, la Principessa Leia di Guerre Stellari, da decenni è indicata come l’eroina al femminile per antonomasia. Ma al contrario di loro, Megan Turner vive nel mondo reale, si confronta con la violentissima società americana di quegli anni, è costretta a venire a patti con un ambiente maschilista, chiuso, a doversi guadagnare da sola il rispetto e soprattutto la salvezza. Girato in modo magnifico, con un uso perfetto del rallenty e della soggettiva, con una fotografia di Amir Mokri che rende seducente anche i momenti più drammatici, Blue Steel ha nel confronto finale tra Megan e Hunt la metafora di un risveglio della coscienza. Lì vi è la reazione ad una violenza di genere che ci viene descritta come insita nella cultura e nella società. Di lì a pochi anni la Terza ondata femminista si farà carico di molte delle problematiche che la protagonista di Blue Steel rappresenta. Anche per questo, oltre che per l’atmosfera elettrizzante, la regia e la prova convincente della Curtis, Blue Steel avrebbe meritato molto più fortuna e considerazione di quanta ne ebbe all’epoca.
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