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Biancaneve, la recensione del live action Disney

Lacerato dal conflitto fra tradizione e contemporaneità, il live action di Biancaneve fa scelte ideologiche discutibili.

Pubblicato il 19 marzo 2025 di Lorenzo Pedrazzi

La rivoluzione non è un pranzo di gala, ma Disney ovviamente non lo sa. Più ancora di ogni altro classico trasposto in live action, Biancaneve cade vittima del fuoco incrociato fra tradizione e contemporaneità, non riuscendo a soddisfare nessuna delle due. Il regista Marc Webb e la sceneggiatrice Erin Cressida Wilson camminano perennemente sulle uova per adattare il primo lungometraggio della Disney (1937), che già edulcorava la fiaba dei fratelli Grimm: non a caso, le soluzioni che trovano sono spesso forzate o illogiche, come la spiegazione del nome di Biancaneve. Attenzione, però, a incolpare la cultura “woke”. Aggiornare le fiabe è legittimo (gli stessi classici Disney lo facevano), purché l’esito incoraggi un vero progresso umano e culturale. Non è questo il caso, purtroppo.

Nata durante una tempesta di neve, Biancaneve (Rachel Zegler) è la principessa di un reame pacifico, dove i frutti della terra appartengono a chi la lavora: questo è ciò che le hanno insegnato suo padre (Hadley Fraser) e sua madre (Lorena Andrea), il Re e la Regina del regno. Alla morte di quest’ultima, però, il sovrano si risposa con la bellissima Grimilde (Gal Gadot), donna che pratica la magia e possiede uno specchio incantato. Grimilde è ossessionata dalla sua bellezza, e non passa giorno senza che ne chieda conferma allo specchio. Quando il Re perde la vita durante una missione all’estero, la nuova Regina ne approfitta: confina Biancaneve al ruolo di sguattera, militarizza il regno e comincia ad accumularne le risorse, lasciando ai sudditi solo le briciole. Un giorno, però, lo specchio le dà una risposta diversa, indicando proprio Biancaneve come “la più bella del reame”. La principessa viene però risparmiata dal cacciatore (Ansu Kabia) che dovrebbe ucciderla, e scappa nella foresta. Dopo aver trovato rifugio presso i sette nani, unisce le forze al ribelle Jonathan (Andrew Burnap) e alla sua banda di ladri per liberare il regno dalla Regina malvagia.

Niente Principe in questa versione, bensì un uomo del popolo che lotta contro la tirannia. Certo, la caratterizzazione è scontata: lui arrogante e disincantato, lei dolce e idealista, come in una commedia degli anni Trenta. È chiaro che la sceneggiatura cerca di dare spessore al loro rapporto, legittimando così l’innamoramento e il successivo bacio salvifico, senza ambiguità di alcun genere. D’altra parte, la stessa Biancaneve ha una funzione più attiva, anche se forse bisognerebbe parlare di “resistenza passiva”: non imbraccia le armi come nel film con Kristen Stewart, per intenderci. Piuttosto, la sua resistenza è figlia dei valori con cui è stata cresciuta, in particolare l’onestà e la gentilezza. Il peccato più grande di Biancaneve è proprio questo: si illude di abbattere la tirannia con qualche buona parola. Il discorso sulla gentilezza poteva avere senso nel contesto di Cenerentola (il live action di Kenneth Branagh si basava su quello), ma non regge di fronte ai soprusi di Grimilde. Sembra quasi un invito a stare tranquilli e protestare in modo “civile”, come insegna la retorica del potere. Va da sé che, nonostante i proclami socialisti, tutto si riduce a una celebrazione della monarchia illuminata: diritti e risorse sono sempre concessi dall’alto, per merito di un sovrano magnanimo che ha persino l’accortezza di ricordare i nomi dei sudditi. Quanta grazia.

C’è quindi un limite ideologico in Biancaneve, dove l’oppressione esce dalla porta e rientra dalla finestra. In tal senso, esprime un punto di vista che appartiene davvero a Hollywood, contrariamente ai film che sbandierano lo slogan “Eat the rich”; se solo non cercasse di vendercelo come una sommossa popolare, bisognerebbe riconoscergli una certa onestà. Il resto, comunque, è altrettanto manchevole. Questi remake targati Disney – con l’eccezione de Il Libro della Giungla – hanno sempre avuto qualcosa di artificioso, ma qui la sensazione si rafforza. Gli esterni ricostruiti in studio sono posticci, come pure i costumi, e solo gli abiti della Regina si distinguono per qualità. Calati in questo contesto, gli animali e i nani in CGI sembrano ancora più artefatti, stilisticamente fuori luogo rispetto al mondo che li circonda: l’animazione è un linguaggio dotato di una sua dignità, e immetterne i paradigmi nel live action significa operare una grossa forzatura, con effetti che spaziano dal ridicolo all’inquietante. Se aggiungiamo canzoni tutt’altro che memorabili e gag comiche stanchissime, il risultato finale non è certo lusinghiero.

Peccato, perché Rachel Zegler meritava di meglio, e anche qui riesce a dimostrare il suo talento nonostante i limiti della produzione. Ma il problema non è certo la scelta della protagonista, né tantomeno la cultura woke: Biancaneve è l’estremizzazione di una formula a cui la Disney si è ormai assuefatta, specchio di un’epoca in cui Hollywood venera le proprietà intellettuali (soprattutto quelle preesistenti) come l’unica fonte di successo. Il ricorso a immagini riconoscibili – ma appartenenti a un mezzo espressivo diverso – genera una creatura ibrida che resta bloccata nel suo limbo, tra l’esigenza di omaggiare il passato e quella di servire il presente. Alla fine, però, fallisce in entrambe le ambizioni.

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