Cinema e Intelligenza Artificiale Interviste

The Brutalist e l’uso dell’AI nel cinema, intervista a Daniele Giuliani e Gianni Galassi

Pubblicato il 17 febbraio 2025 di Filippo Magnifico

Con l’avvicinarsi della Notte degli Oscar, la competizione tra i film si fa feroce, accompagnata da polemiche mirate contro i principali candidati. Coincidenze? Difficile crederlo, visto che le controversie colpiscono proprio i favoriti.

Mentre film come Anora guadagnano terreno senza scandali, altri subiscono un contraccolpo. Emilia Pérez, con 13 nomination, è in difficoltà per il passato controverso della protagonista, rifiutata persino da Netflix. The Brutalist, invece, è al centro di una disputa sull’uso dell’intelligenza artificiale, un tema oggi molto delicato.

La polemica è esplosa quando si è scoperto che l’AI è stata usata in post-produzione per correggere la pronuncia ungherese di Adrien Brody e Felicity Jones. Alcuni temono che la tecnologia abbia alterato le loro performance, ma il regista Brady Corbet ha smentito, assicurando che l’AI è servita solo per dettagli tecnici.

Brody, amareggiato dalle speculazioni, ha difeso il suo lavoro, sottolineando di aver studiato a lungo l’ungherese e lavorato con un coach di dizione.

Le sue parole sembrano chiarire la questione, come dimostra la recente vittoria ai BAFTA, ma il dibattito resta aperto. Per questo abbiamo deciso di approfondire il tema con Gianni Galassi, direttore del doppiaggio italiano di The Brutalist, e Daniele Giuliani, doppiatore, dialoghista, direttore del doppiaggio e presidente di ANAD (Associazione Nazionale Attori Doppiatori), già ospite del Podcast di Cineguru.

Li abbiamo intervistati separatamente: ecco cosa ci hanno detto riguardo al caso specifico di The Brutalist.

Gianni Galassi sull’uso dell’AI in The Brutalist:

È una domanda che richiede due articolazioni e una premessa. La premessa è questa: alla base di questa e altre polemiche simili c’è un equivoco, ovvero pensare che la macchina audiovisiva documenti senza soluzione di continuità la performance di un attore.
Ora, se lo chiedo a mia nipote di sei anni, sarà la prima a dirmi: “No, nonno, il cinema è fatto di un’altra sostanza, è una filiera tecnologica. C’è il trucco, le luci, il montaggio.”
Quello che vediamo sullo schermo non è l’attore in carne e ossa, né la semplice documentazione di ciò che ha fatto. Tant’è che i semiologi del cinema parlano di attante schermico, perché è il risultato di un processo tecnico. […] Quando nei film di supereroi si cambia il colore degli occhi di un attore, nessuno si scandalizza. Quando, prima delle tecnologie digitali, si modificava la tonalità della voce per adattarla al personaggio, nessuno si indignava.
Dobbiamo quindi chiarire cosa intendiamo per attante schermico: quella figura umana che, però, non è lì. Io non posso abbracciare László Tóth, ma posso abbracciare Adrien Brody se lo incontro al bar. […] Il cinema crea un mondo a cui lo spettatore sceglie di credere. Accettiamo che un attore voli, pur sapendo che nella realtà non può farlo.
Venendo al caso specifico, non so quanto e come sia stata impiegata l’AI per correggere la pronuncia in ungherese di Brody e Felicity Jones. Dire semplicemente che è stata usata un’app di AI non ha senso.
Non conosco Respeecher [il software usato in The Brutalist n.d.r.]  né so se possa essere usato in modo non generativo, come supporto digitale per la manipolazione del suono. Da decenni i cantanti usano l’autotune per correggere l’intonazione, e nessuno se ne preoccupa. […] Se l’esibizione trasmette qualcosa al pubblico, è irrilevante se c’è stato un aiuto tecnologico. […] Se questa polemica esplode proprio a ridosso degli Oscar, allora il contesto è chiaro: il tema non è più artistico o tecnologico, ma politico.
Più in generale, noto da qualche anno un clima quasi millenaristico sull’AI: qualsiasi cosa ci spaventi la chiamiamo intelligenza artificiale. Un tempo si parlava di Satana, di Belzebù. […] Che l’AI minacci l’occupazione, se usata solo per aumentare i profitti, è evidente. Ma vederla come una minaccia antropologica o epocale è un’altra storia.
Nel doppiaggio, con l’avvento dell’ADR, sono scomparsi in pochi mesi proiezionisti e ricordisti. Nessuno si è lamentato. Tre figure professionali si sono ridotte a una. […] È un problema politico, occupazionale, non tecnologico. La tecnologia è solo uno strumento: può migliorare il lavoro o essere usata per risparmiare e peggiorarlo. Anche qui, il tema è politico, non tecnico.


Daniele Giuliani, foto di Giulia Bertini

Daniele Giuliani sull’uso dell’AI in The Brutalist:

Finché l’intelligenza artificiale è uno strumento, finché usiamo strumenti di natura algoritmica per aiutare la cinematografia, entriamo nella sfera del gusto personale, di quanto e fino a dove ci si può spingere. Io preferisco un film con 80 comparse in scena piuttosto che due attori e 80 comparse ricreate con la CGI.
D’accordo, però la CGI esiste da tanti anni e nessuno ha mai sollevato un caso enorme perché togliesse 80 convocazioni di comparsa a qualcuno. Forse abbiamo sbagliato in passato, non lo so. Ti dico che, come strumenti, quelli tecnologici possono sicuramente aiutare.
Da artista – e non parlo di The Brutalist, che non ho visto né doppiato, quindi non ho un’idea ben precisa – mi sento di dire che l’arte è fantastica nelle sue imperfezioni. Quindi, se uno strumento tecnologico serve a rendere perfetta un’opera, non so se mi convince.

Abbiamo quindi chiesto a Daniele Giuliani se, in qualità di doppiatore, accetterebbe che l’AI venga utilizzata sulla sua voce per migliorarla, qualunque cosa ciò significhi. La sua risposta ha confermato che, al di là dell’AI, i trucchi sono sempre esistiti nel doppiaggio.

Se accetterei mai? Non lo so, dovrei trovarmici.
Nel doppiaggio, strumenti software basati sull’intelligenza artificiale già esistono. Ma lo stesso Pro Tools è un prodotto straordinario che permette di fare cose incredibili. Qualche tempo fa, dirigevo una serie molto importante e c’era un attore che non riusciva a dire una parola. A un certo punto, abbiamo preso una sua sillaba da un’altra parola detta due scene prima, l’abbiamo inserita nel punto giusto ed è calzata perfettamente. Nessuno se n’è accorto. E l’abbiamo fatto.
Ma il punto qual è? È quando si va a impattare sul lato artistico a monte. Questo lascia perplessi. Perché, ripeto, gli strumenti artificiali esistono da anni, sono presenti in tantissimi campi, e nessuno si è mai strappato i capelli.
Il dubbio – di natura etica, forse, anche se non so se sia la parola giusta – è: vogliamo davvero che questi strumenti sostituiscano l’arte? Perché una cosa è modificare una vocale quando un attore ha ripetuto la battuta 50 volte e ci sono scadenze di produzione. Un’altra cosa è usare l’intelligenza artificiale per sopperire a trucco e parrucco.
Se Tom Hanks deve sembrare più giovane, facciamo tutto con l’IA? Anche il trucco e parrucco è arte. Abbiamo visto lavori straordinari e abbiamo sempre creduto alla magia del cinema. Non necessariamente serviva fare tutto con l’intelligenza artificiale.
Non c’è una risposta univoca, dipende dai contesti. Ma la vera domanda è se vogliamo che lo strumento rimpiazzi l’arte. Perché se fosse così, abbiamo già software incredibili che riproducono batterie campionate perfette, che non sbagliano mai un colpo. Allora, da domani, tutti i batteristi smettono di suonare perché tanto c’è tutto campionato?
Ma ci piace davvero?

Per quanto riguarda il doppiaggio italiano di The Brutalist, Gianni Galassi ci ha parlato del profondo lavoro fatto per rendere giustizia all’opera titanica di Brady Corbet. Ogni scelta, dalla selezione degli attori alle specifiche tecniche dell’accento, è stata pensata per rispettare la visione originale del regista. Galassi ha spiegato come, pur senza l’uso di tecnologie generative, il lavoro di limatura delle performance sia stato reso possibile grazie alla precisione offerta dalla tecnologia digitale, come Pro Tools.

Non ho avuto nessuna interlocuzione diretta con il regista del film, che pure è circondato dalla leggenda di essere attentissimo ai dettagli, ossessivo. […] La gestazione di questo film gli è costata, credo, un bel pezzo della vita e forse anche un bel pezzo della sua salute.
E si vede, perché questo film è un capolavoro che ha un contenuto di verità stratosferico.
Io mi sono limitato a interagire con Barbara Casucci, che è la responsabile di Universal Italia per le versioni localizzate in italiano dei film Universal, e abbiamo scelto di armonizzare la linea editoriale abituale della Universal, che consiste nel rispettare sempre e comunque, a qualsiasi costo (costo economico, intendo), le diverse relazioni tra lingue che sono reciprocamente straniere in un’opera audiovisiva.
Le necessità che ho io come direttore di doppiaggio nell’ottenere dagli attori di doppiaggio una performance confacente sono fondamentali. […] abbiamo concordemente deciso di utilizzare voci di attori di nazionalità e madrelingua italiana perché volevamo restare simmetrici alla versione originale del film.
Nel film, infatti, abbiamo due attori di madrelingua anglo-americana che fingono di essere ungheresi. […] È un po’ come il Marlon Brando di Giovani Leoni, che parlava in inglese con accento tedesco. Quindi, un’operazione che, se vogliamo, prescindendo un attimo dalla bellezza assoluta di questo film, può anche apparire un po’ bislacca.
Per esempio, casualmente, soltanto un paio di mesi prima, avevo curato, sempre per la Universal, l’edizione italiana di Anora. […] In Anora, c’è un protagonista di madrelingua russa che recita in inglese con il proprio accento e poi parla russo ogni qual volta la sceneggiatura lo prevedeva.
Ebbene, in questo caso, noi non abbiamo cercato di far fingere a un attore italiano di essere russo. Abbiamo chiamato un giovane attore di madrelingua russa. […] abbiamo cercato comunque di mantenere anche per The Brutalist lo stesso schema.
Se lo schema è: attore di madrelingua inglese che si finge ungherese in un film parlato in inglese, allora noi abbiamo chiamato due attori di madrelingua italiana per la versione italiana dello stesso film, che fingono di essere ungheresi.
Come l’abbiamo ottenuto? Con il metodo consueto: abbiamo avuto un coach in sala che, non battuta per battuta, ma proposizione per proposizione, ha addestrato i nostri attori a costruire l’accento.
L’accento deriva da una lingua che contiene suoni vocalici che non fanno parte del patrimonio fonetico dell’italiano, una lingua in cui non si è capaci di pronunciare i dittonghi, per cui anche l’accostamento di due vocali andava a costituire un problema.
Non abbiamo fatto ricorso a nessun ausilio tecnologico di carattere generativo, ma ci sono stati dei momenti in cui abbiamo rifatto una sillaba, inserendola in una frase.
Ora, questo è un aspetto che diminuisce la bravura di Simone D’Andrea e Chiara Gioncardi? No. Semplicemente, abbiamo cercato di mettere in atto la stessa ossessività di Brady Corbet, che cercava la perfezione a tutti i costi.
Questo ha comportato, da parte della Universal, un investimento economico mastodontico, perché è stata una lavorazione lunghissima e costosa.
Abbiamo ottenuto un risultato? […] Il film è già uscito ed è già stato visto dal pubblico nella versione italiana. […] Non si sono avute levate di scudi per come abbiamo reso gli accenti dei due protagonisti.
Abbiamo cercato anche attori che avessero un buon match vocale con i due attori della versione originale, e siamo riusciti a trovarli.
Diciamo che abbiamo messo in atto il metodo più classico del doppiaggio in lingua italiana e posso dire che, se fossimo ancora ai tempi della registrazione analogica, non avremmo ottenuto lo stesso risultato.
La tecnologia digitale di un’applicazione come Pro Tools, che non è generativa ma ha bisogno di essere pilotata dall’uomo, ha reso possibili alcuni lavori di limatura che altrimenti sarebbero stati inimmaginabili.

Ed è proprio questo il punto: la tecnologia digitale è frequentemente utilizzata nel doppiaggio, e ciò che Brady Corbet ha fatto per il suo film non è lontano dagli esempi citati sia da Gianni Galassi che da Daniele Giuliani. Tuttavia, l’Academy ha deciso di correre ai ripari e sembra stia valutando l’obbligo di dichiarare l’uso dell’intelligenza artificiale nei film. Il rischio è che passi il messaggio sbagliato, se vengono diffuse informazioni errate. Come accennato in precedenza, si corre il rischio di sminuire il lavoro degli attori, facendo credere che non abbiano recitato.
Ecco cosa ci ha detto Daniele Giuliani sulla questione:

Si tratta di tracciare una linea chiara nel regolamento. L’Oscar ha già la categoria per i migliori effetti speciali, e quelli sono strumenti che includono l’uso dell’intelligenza artificiale. Quindi, in un certo senso, c’è già un riconoscimento di questi strumenti all’interno delle premiazioni.
La chiave sarebbe dichiarare obbligatoriamente l’utilizzo di determinati software che possono alterare l’opera, con un elenco preciso di tecnologie consentite e non consentite. A quel punto, così come si dichiara che è stata usata la CGI per creare uno stadio che esplode o una città bombardata dagli alieni, si potrebbe dichiarare anche l’uso dell’IA in altri ambiti.
Per quanto riguarda il doppiaggio, strumenti come Pro Tools in realtà non rientrano nemmeno in questo discorso: non sono intelligenza artificiale, ma strumenti di lavoro, al pari di un microfono o di una console di mixaggio. Certo, sono tecnologie avanzatissime, ma è diverso. Pulire una presa diretta di un microfono con un tool di riduzione del rumore è considerabile intelligenza artificiale? Probabilmente no, è solo uno strumento di post-produzione.
Quindi, se l’Academy stabilisce con precisione cosa rientra o meno nell’uso dell’IA e quali strumenti possono essere impiegati senza necessità di dichiarazione, allora un’etichetta informativa potrebbe avere senso. Però, serve una norma chiara e definita. Altrimenti, si rischia di finire in un territorio troppo ampio e poco gestibile. D’altronde, il premio per i migliori effetti speciali esiste da una vita, ed è già un riconoscimento dell’uso di strumenti tecnologici per migliorare l’esperienza cinematografica.
[…] La chiave è soppesare quanto uno strumento artificiale possa influire sulla realizzazione dell’opera. Quanto la cambia? Io sono sicuro che a Adrien Brody si sia impegnato moltissimo. E mi dispiace per lui, perché ora passa il messaggio che l’AI ha fatto tutto, ma non è vero, sono sicuro che non sia così. Quindi, anche in questo caso, la chiave è stilare un elenco di norme chiare che ci facciano capire fino a dove ci possiamo spingere. Probabilmente, modificare leggermente un suono si potrà fare, e si potrà parlarne. […] Ci sono cose molto più finte nel cinema che non sono mai state sotto l’occhio, sotto la lente d’ingrandimento come questo. La chiave, secondo me, è stabilire un criterio. Ecco, la parola giusta per me è “criterio”. Criterio è la parola corretta. Mettendo dei paletti, questi criteri decidono cosa si può fare e cosa no. Fino a che punto il lavoro è dell’uomo o della macchina?

Ed ecco, invece, il parere di Gianni Galassi:

Ho l’impressione che questa istanza, che tu mi hai descritto, rientri pienamente nel clima pestilenziale della suscettibilità che è ormai diventato il mantra degli ultimi anni. Ormai tutti tendono a sentirsi parte di categorie pronte a insorgere ogni volta che qualcuno fa o dice qualcosa che, a giudizio dei membri di queste categorie, è inaccettabile.
Torno a ripetere: nessuno si fa un problema se il supereroe nel film vola. Il verosimile filmico è un’altra cosa: è un po’ come la verità giudiziaria rispetto alla verità fattuale. Se siamo ancora qui a illuderci che esista qualcosa di assolutamente vero, allora, soprattutto in quanto spettatori, dal punto di vista della consapevolezza cognitiva siamo parecchio indietro.
Mi illudevo che polemiche di questo tipo non avessero nemmeno un terreno su cui germogliare. A me sembra un riverbero di questo maoismo woke che ci sta appestando tutti, per cui ormai non si può più esprimere un parere, dobbiamo cancellare le cose, non esiste più una distinzione tra il presente e il passato, si è persa la cognizione di cosa sia la storia.
Ora, se perdiamo anche la consapevolezza del fatto che il dispositivo audiovisivo è innanzitutto una macchina tecnologica – sì, umanoide, nel senso che la macchina da presa e il registratore dei suoni sono costruiti per imitare la percezione umana, ma pur sempre un’imitazione – allora siamo fuori strada.

Se il caso specifico di The Brutalist sembra essere stato ingigantito, è anche vero che la questione è più complessa di quanto si possa pensare. Respeecher, il software utilizzato per apportare leggere migliorie ai dialoghi in ungherese nel film di Brady Corbet, è uno strumento ampiamente diffuso a Hollywood.

Un esempio noto è il suo utilizzo in The Book of Boba Fett per ricreare la voce del giovane Mark Hamill nei panni di Luke Skywalker. La voce che sentiamo è stata interamente generata con Respeecher, che ha analizzato vecchie interviste e i primi film di Star Wars per riprodurre il timbro giovanile dell’attore, ovviamente con il suo consenso.

Tuttavia, questo solleva una questione spinosa. Nel 2023, Stephen Fry ha denunciato un episodio inquietante durante una conferenza: la sua voce era stata utilizzata in un documentario senza il suo consenso. Lui non aveva mai doppiato quel progetto, ma evidentemente aveva firmato un contratto contenente una piccola clausola che permetteva ai titolari dei diritti di sfruttare la sua voce.

Benvenuti nel nostro incubo“, ha commentato Daniele Giuliani dopo aver ascoltato questo aneddoto. Ma come si può affrontare concretamente questo problema? Trovate la (possibile) risposta nella seconda parte dell’intervista, pubblicata su Cineguru.

Con ScreenWEEK e Cineguru seguiamo con attenzione, sin dagli esordi, l’evoluzione dell’AI e il suo impatto sul mondo dell’Intrattenimento.