Gli anni Settanta e Ottanta sono quelli in cui il rapporto tra realtà e televisione si evolve, al punto che l’orrore in diretta non solo viene normalizzato, ma talvolta persino desiderato. Pur essendo fin troppo sensazionalistico, il sottotitolo italiano di September 5 (“La diretta che cambiò il mondo”) si riferisce proprio a questo: tra il 5 e il 6 settembre del 1972, durante le Olimpiadi estive di Monaco, il sequestro di alcuni atleti israeliani da parte dell’organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero venne documentato dalla troupe di ABC Sports, che si trovava sul posto per seguire le gare. Fu il primo attacco terroristico raccontato in diretta televisiva, e in un certo senso rappresentò un punto di non ritorno. L’orrore, inibito della sua pericolosità grazie alla distanza, poteva arrivare nelle case di tutto il mondo con la semplice pressione di un tasto.
Tim Fehlbaum, regista svizzero che si è fatto le ossa nella fantascienza, trova la chiave giusta per riflettere su questo passaggio epocale: September 5 ricostruisce infatti la vicenda dal punto di vista della troupe, a partire dal giovane produttore Geoffrey Mason (John Magaro), che si ritrova a capo della sala controllo mentre il sequestro è in corso. Insieme al capo delle operazioni Marvin Bader (Ben Chaplin) e al presidente Roone Arledge (Peter Sarsgaard), Mason deve gestire la situazione, aiutato dall’interprete Marianne Gebhardt (Leonie Benesch). La questione, però, richiede un certo tatto: cosa è lecito mostrare? Fin dove può spingersi la troupe senza intralciare il lavoro della polizia e dare troppa visibilità ai terroristi?
La sceneggiatura scritta da Fehlbaum con Moritz Binder e Alex David ha il merito di portarci tra le pareti dello studio televisivo, con pochissime sortite esterne, per inquadrare l’evento da un’angolazione privilegiata. Geoffrey e il resto della troupe si solito non si occupano né di cronaca né di geopolitica, ma restano pur sempre dei professionisti: anche senza esperienze specifiche, riescono ad adattarsi al contesto e ricavare le informazioni di cui hanno bisogno. Giocoforza, è un film che si nutre di dialoghi fitti e significativi, capaci di reggere la tensione fino all’epilogo del sequestro, nonostante qualunque spettatore minimamente informato sappia già come andrà a finire. Un contributo decisivo, in tal senso, viene dal montaggio serrato e precisissimo di Hansjörg Weißbrich, come pure dalla fotografia ombrosa di Markus Förderer.
Lo studio diviene allora uno spazio claustrofobico dove si consumano e amplificano i dilemmi etici della stampa, poiché i confini tra libertà d’informazione, diritto di cronaca e rispetto delle vittime sono molto labili. D’altra parte, cinema e giornalismo si collocano spesso ai due poli di uno scambio reciproco: interrogandosi sull’etica della stampa, il cinema offre a quest’ultima dei notevoli spunti di riflessione, talvolta ignorati (o dimenticati) dai giornalisti stessi; mentre il giornalismo, da parte sua, dona al cinema storie complesse, capaci di rinnovare lo sguardo sulla Storia con una prospettiva inedita. È proprio ciò che accade in questo caso. Le implicazioni di una diretta così imprevedibile, vista da 900 milioni di persone in tutto il mondo, si rivelano un materiale fortemente cinematografico, dotato di alto potere drammaturgico per la delicatezza delle scelte in campo. Da questo punto di vista, l’apice viene raggiunto quando si diffonde la notizia della liberazione degli ostaggi, ma la squadra non trova una conferma ufficiale: pressati dalla necessità di essere sempre sul pezzo, Mason e gli altri devono decidere se comunicare l’informazione, e individuare la formula giusta per farlo. Ogni parola, in circostanze del genere, ha un peso enorme.
Il fulcro di September 5 è quindi il lavoro giornalistico, non tanto la Storia in sé, che rimane per lo più fuori dalla porta (come gli inevitabili collegamenti con l’attualità). È però interessante che qualcosa trapeli dai dialoghi fra i personaggi, soprattutto grazie alla tedesca Marianne, consapevole di quanto la Germania Ovest punti sui giochi olimpici per promuovere un’immagine allegra e ottimista del paese. Dalla caduta del Terzo Reich erano passati meno di trent’anni, e il ricordo era ancora fresco: i confronti verbali sull’argomento non fanno che arricchire il contesto generale, in un film dove si cercano di prendere in considerazione tutte le possibili sfumature degli eventi. Come farebbe una buona copertura giornalistica, insomma.