“Quando si tratta di ricordare” scrive Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, “la fotografia è più incisiva. La memoria ricorre al fermo-immagine; la sua unità di base è l’immagine singola”. In effetti, le atrocità della Seconda Guerra Mondiale si sono fatte memoria anche tramite le fotografie, e il lavoro di Lee Miller è stato determinante: la fotoreporter americana ha documentato l’uso del napalm nella battaglia di Saint-Malo, ed è stata tra i primi civili a entrare nei campi di concentramento nazisti, inviando scatti agghiaccianti da Buchenwald e Dachau. Così, mentre il cinema riflette sul legame tra guerra e fotografia (lo abbiamo visto di recente in Civil War), il biopic di Ellen Kuras con Kate Winslet ripercorre i momenti cruciali della vita di Lee, lasciandone trasparire sia l’impegno professionale sia il carattere affilato e anticonformista.
Formatasi nel surrealismo, Elizabeth “Lee” Miller è contemporaneamente figlia e artefice dell’avanguardia europea: nel 1929, dopo aver lavorato come modella a New York, si reca a Parigi per diventare apprendista e collaboratrice di Man Ray, che la introduce nel suo circolo di artisti bohémien. Il film comincia però nel 1937, quando Lee si innamora dell’inglese Roland Penrose (Alexander Skarsgård) e si trasferisce a Londra, dove trova lavoro presso la rivista Vogue e fotografa la vita dei britannici nei mesi del Blitz. Nel 1941 riesce a farsi inviare in Francia come corrispondente di guerra, e lavora sul campo insieme al collega David Scherman (Andy Samberg). Tutto il racconto è in realtà un flashback: Lee sta infatti narrando la sua storia a un intervistatore (Josh O’Connor) nel 1977, anno in cui morirà.
Non c’è da stupirsi che Ellen Kuras, già direttrice della fotografia di Spike Lee e Michel Gondry, dimostri una certa sensibilità per l’argomento. Non a caso, il biopic è punteggiato dagli scatti più celebri della fotografa, svelandone la genesi e la preparazione: in altre parole, il retroscena di alcune immagini che hanno fatto la Storia. Sontag, d’altra parte, ci ricorda che “l’immagine fotografica […] non è mai solo il trasparente resoconto di un evento. È sempre un’immagine che qualcuno ha scelto”, perché “fotografare significa inquadrare, e inquadrare vuol dire escludere”. Anche in virtù della sua formazione surrealista, Lee Miller costruisce le foto con cura, mette in scena la realtà per ottenere un effetto particolarmente suggestivo o drammatico: esemplare il ritratto delle due donne mascherate durante il Blitz, o la celebre foto (scattata da Scherman ma ideata da lei stessa) che mostra la reporter nella vasca di Hitler, con il pavimento imbrattato dal fango di Dachau.
Da questo punto di vista, Kuras ha il merito di raccontarne il lavoro con naturalezza, senza forzature agiografiche; talvolta, però, è la sceneggiatura di Liz Hannah, John Collee e Marion Hume a scivolare nel didascalico, soprattutto quando vuole rimarcare l’alterità di Lee rispetto al contesto in cui si muove, chiaramente dominato dagli uomini. Per Kate Winslet – anche produttrice – è un riferimento quasi autobiografico: Lee Miller è un suo progetto del cuore, e per anni la grande attrice ha lottato in cerca di finanziamenti, scontrandosi con l’atteggiamento paternalista e condiscendente di molti colleghi maschi. Winslet ci mette tutta sé stessa, interpreta Miller con dedizione furibonda, e si rende credibile sia nelle sfumature sardoniche sia nei momenti più drammatici, quando la fotografa scopre l’orrore dei campi di concentramento (un trauma che non la abbandonerà mai, e che il film suggerisce in modo sottile).
Peccato per le soluzioni un po’ troppo scontate, non solo come struttura narrativa (comunque giustificata dall’efficace rivelazione finale), ma anche in termini fotografici, dove i colori morbidi della vita bohémien sono contrapposti al grigiore terroso della guerra. Un biopic piuttosto convenzionale, insomma, ma valorizzato dalla poderosa interpretazione di Kate Winslet e dalla grazia di Andy Samberg, spalla discreta e sensibile di una protagonista bigger than life.