Cinema

Il vero architetto che ha ispirato The Brutalist

Pubblicato il 03 febbraio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

È facile scambiare The Brutalist per un film biografico, ma il protagonista László Tóth – l’architetto interpretato da Adrien Brody – non esiste affatto: è un’invenzione del regista Brady Corbet e della co-sceneggiatrice Mona Fastvold, stessa coppia che ha scritto L’infanzia di un leader e Vox Lux. Oltre la superficie fittizia esiste però una realtà molto più complessa, dove Storia e biografia incontrano una rielaborazione drammaturgica, come spesso accade nel cinema.

È chiaro che Corbet aveva in mente una figura tragica per il suo film, e si è consultato con lo storico dell’architettura Jean-Louis Cohen (morto nell’agosto 2023) per individuare un architetto “rimasto bloccato nel pantano della guerra, ma capace di ricostruire la sua vita in America”, come ha raccontato lui stesso a The Hollywood Reporter. Il fatto, però, è che non ci sono esempi di questo tipo: i grandi architetti europei del Bauhaus si sono trasferiti negli Stati Uniti prima della Seconda Guerra Mondiale, non dopo; e nessuno di loro ha dovuto guadagnarsi da vivere con mestieri di fatica, o fare la fila per il pane. Corbet e Fastvold sono stati quindi costretti a lavorare di fantasia, inventandosi un personaggio che rispondesse alla loro concezione drammatica.

La figura di László Tóth, puramente fittizia, nasce proprio da questa esigenza. Architetto ebreo di grande successo tra le due guerre, László lascia la natia Budapest nel 1947 per emigrare oltreoceano, dove svolge i lavori più disparati prima di incontrare il cugino Attila (Alessandro Nivola), che lo assume nel suo magazzino di arredamento. Dopo aver rinnovato lo studio del ricco industriale Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce), un’incomprensione fa perdere a László sia l’impiego sia la fiducia del cugino. Van Buren però torna sui suoi passi, si dichiara estimatore dell’architetto e gli commissiona un lavoro: progettare un centro polifunzionale in onore della madre defunta, comprensivo di biblioteca, palestra, auditorium e chiesa. László concepisce un massiccio edificio in cemento armato che spiazza lo stesso Van Buren e i suoi collaboratori, abituati allo stile modernista che l’architetto utilizzava in Ungheria e Germania. Mentre crescono le tensioni fra lui e il committente, sua moglie Erzsébet (Felicity Jones) riesce a raggiungerlo in America con la nipote Zsofia (Raffey Cassidy), ma questo non basta a lenire il tormento umano e professionale del protagonista.

Anche se inventata di sana pianta, la storia trae ispirazione da eventi reali. Qualunque studioso di architettura può infatti leggere un parallelismo tra le vicende di Tóth e quelle di Marcel Breuer, uno dei principali esponenti del movimento moderno insieme a Walter Gropius e Mies van der Rohe. Come l’eroe del film, anche Breuer è un ebreo ungherese che studia alla scuola del Bauhaus, e realizza oggetti d’arredamento con tubi d’acciaio ispirati alla struttura delle biciclette, tra cui la celebre sedia Wassily («Sembra un triciclo» commenta la moglie di Attila quando vede le creazioni di László). E come quest’ultimo, anche Breuer emigra negli Stati Uniti, seppure prima della guerra. Qui, l’architetto ungherese progetta la prima sede del Whitney Museum of American Art a New York City, il Murray D. Lincoln Campus Center all’Università del Massachusetts e molti altri edifici.

Particolarmente significativo, in riferimento a The Brutalist, è però il caso dell’Abbazia di Collegeville in Minnesota, conclusa nel 1961. Commissionata a Breuer dai monaci Benedettini, la sua costruzione è raccontata nel libro Marcel Breuer and a Committee of Twelve Plan a Church: A Monastic Memoir di Hilary Thimmesh, citato da Corbet come fonte di ispirazione. Non a caso, lo stesso László progetta una chiesa all’interno del sopracitato centro polifunzionale, e incontra difficoltà molto simili a quelle di Breuer: un luogo di culto brutalista, così anticonvenzionale nella forma e nei materiali (cemento a vista), suscita molti dubbi tra i committenti, anche per le origini ebree dell’architetto. Proprio come l’opera di Breuer, l’edificio monumentale di László viene criticato perché rovinerebbe il paesaggio, complice la scarsa attrattiva del cemento.

Certo, Breuer non reagisce con la stessa furia del suo “doppio” quando gli viene chiesto di modificare il disegno: al contrario – scrive Thimmesh nel memoir – l’architetto si limita a far notare che un nuovo progetto richiederebbe molto tempo, e sfocerebbe soltanto in un risultato più confuso. Breuer, consapevole dei molti compromessi necessari a un mestiere del genere, era abituato a trattare con i committenti. Il ritratto che Corbet ci offre del suo protagonista rievoca invece l’immagine dell’artista solitario e incorruttibile, talmente devoto alla sua opera da rischiare la sanità mentale. È anche per questo che, come sottolinea Oliver Wainwright sul Guardian, la comunità degli architetti generalmente non ama The Brutalist: per intenderci, un trio di critici americani noto come Architecture Writers Anonymous ha addirittura realizzato un podcast dal titolo impietoso, Why The Brutalist Is a Terrible Movie. Da un lato è comprensibile. Il film di Corbet drammatizza la realtà e abbraccia diversi cliché (László è persino dipendente dall’eroina), mostrando l’architetto come un campione di egotismo, geniale ma sconsiderato, facile agli accessi di rabbia. Bisogna però considerare che il regista americano si ispira anche all’Howard Roark de La fonte meravigliosa, noto romanzo di Ayn Rand: da qui deriva l’idea dell’architetto come personalità individualista e innovativa, sempre in lotta contro le pressioni esterne.

Pur citando la storia di Marcel Breuer, insomma, Corbet è più interessato a riflettere sul ruolo dell’arte nella società capitalista, dove il potere usa il mecenatismo per lustrare la propria immagine, proponendosi come generoso e illuminato. La caratterizzazione di László serve a instaurare un contrasto fra l’artista e il potere stesso, tra il creatore di un’opera e il suo sfruttatore. Se fosse stata una vicenda di compromessi, senza dubbio ci sarebbero state più sfumature; ma forse i peccati del capitale non ne sarebbero usciti con altrettanto vigore. Invece, il rapporto con Van Buren si rivela un tritacarne spaventoso, capace di stupri tanto metaforici quanto letterali. Gli anacronismi (come la celebrazione del brutalismo alla Biennale di Architettura di Venezia del 1980, decenni prima rispetto alla sua vera rivalutazione) fanno parte del gioco, e non depotenziano un film che – per stessa ammissione del regista – è pura “storia virtuale”: un territorio in cui l’artista, non diversamente da László Tóth, può progettare ciò che vuole.

The Brutalist

Qui potrete leggere la recensione di The Brutalist da Venezia 81