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Il seme del fico sacro, la recensione del film di Mohammad Rasoulof

Pubblicato il 17 febbraio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

La morte di Mahsa Amini ha innescato una nuova stagione di proteste in Iran, diffuse a livello nazionale tra classi sociali diverse, spesso a partire dalle scuole e dalle università. Il seme del fico sacro è la risposta del cinema a quel periodo tumultuoso, ma con l’arguzia e la lucidità tipica dei maestri iraniani, capaci di trattare questioni socio-politiche delicatissime senza scadere nel didascalico.

L’approccio di Mohammad Rasoulof (già Orso d’Oro a Berlino per Il male non esiste) rievoca quello del connazionale Asghar Farhadi, soprattutto se pensiamo a film come Una separazione e Un eroe: il regista costruisce infatti un intreccio che, partendo da un singolo evento, sfocia in un’escalation sempre più drammatica, ben oltre le previsioni e il controllo dei singoli personaggi. L’episodio scatenante è qui la promozione di Iman (Missagh Zareh) a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria, carica di prestigio che garantirà alla sua famiglia un notevole ritorno economico, pur essendo già benestante. La moglie Najmeh (Soheila Golestani) è entusiasta, e annuncia alle figlie che presto si trasferiranno in una casa più grande, dove potranno avere ciascuna la propria camera.

Il loro stile di vita è chiaramente borghese, di impronta laica, mentre le ragazze – Rezvan (Mahsa Rostami) e Sana (Setareh Malek) – inseguono tendenze e passioni “globalizzate”, non diverse dalle loro coetanee occidentali. Lo abbiamo appena visto in Tatami e Il mio giardino persiano: laicità e libertà sopravvivono all’interno delle mura domestiche, dove nemmeno il regime teocratico può arrivare. D’altra parte, lo stesso Iman ha un rapporto conflittuale con l’autorità, ed è costretto a mettere in discussione la sua etica professionale quando i superiori gli chiedono di avallare delle condanne a morte senza nemmeno esaminare le prove.

Il seme del fico sacro

Essendo un lavoro rischioso, gli viene persino assegnata una pistola d’ordinanza, che però Iman non è in grado di tenere al sicuro. Lo snodo principale della trama è proprio questo: la pistola sparisce, e nessuno sa dove sia finita. Iman sospetta delle figlie, che negano fermamente, ma i rapporti degenerano in seguito alle proteste contro l’obbligo di indossare l’hijab. Rezvan vi partecipa insieme a una sua compagna di università, Sadaf (Niousha Akhshi), che viene ferita dalla polizia e si rifugia in casa dell’amica. Najmeh, presa tra i due fuochi del marito e delle figlie, accetta di aiutarla, ma fatica a empatizzare con le manifestazioni. Il suo sogno borghese sta ormai crollando. Iman è sempre più esasperato, e per ritrovare la pistola sembra disposto a qualunque cosa: è pur sempre un funzionario pubblico, e vede le rivendicazioni femministe come “propaganda del nemico”.

Di fatto, la sua oppressione nei confronti della moglie e delle figlie diviene una sineddoche del regime, laddove quest’ultimo è simboleggiato dall’eponimo “fico sacro”: il Ficus religiosa, diffuso nel subcontinente indiano, è una pianta che si avviluppa intorno a un altro albero fino a strangolarlo, proprio come fanno le dittature. Rasoulof oscilla così tra impegno politico, thriller e dramma familiare, con una ricchezza di sviluppi narrativi che pare quasi dar luogo a tre film diversi, ma sempre ben integrati fra loro. Persino il terzo atto – quello che si prende più rischi – ha in realtà una funzione cruciale, poiché porta a compimento la suddetta sineddoche. I funzionari della teocrazia finiscono per interiorizzarne le dinamiche più brutali, e la prevaricazione si verifica anche su scala privata.

Proprio in virtù della sua voce critica, Il seme del fico sacro è un grande esempio di cinema ribelle, girato in clandestinità fra mille problemi logistici e giudiziari: Rasoulof, già condannato in passato per propaganda contro il regime, ha subìto un’altra condanna dopo l’annuncio della partecipazione del film al 77. Festival di Cannes, ed è stato costretto a lasciare l’Iran al termine di un viaggio a piedi durato 28 giorni. La post-produzione si è svolta in Germania con il montaggio di Andrew Bird, che alterna il girato di Rasoulof alle vere immagini delle proteste per la morte di Amini. Il risultato non è solo un film di pregio, ma una preziosa testimonianza d’epoca: l’ennesima dimostrazione di quanto il cinema possa farsi documento generazionale, in grado di attestare la Storia nel momento stesso in cui accade.