La morte di Mahsa Amini ha innescato una nuova stagione di proteste in Iran, diffuse a livello nazionale tra classi sociali diverse, spesso a partire dalle scuole e dalle università. Il seme del fico sacro è la risposta del cinema a quel periodo tumultuoso, ma con l’arguzia e la lucidità tipica dei maestri iraniani, capaci di trattare questioni socio-politiche delicatissime senza scadere nel didascalico.
L’approccio di Mohammad Rasoulof (già Orso d’Oro a Berlino per Il male non esiste) rievoca quello del connazionale Asghar Farhadi, soprattutto se pensiamo a film come Una separazione e Un eroe: il regista costruisce infatti un intreccio che, partendo da un singolo evento, sfocia in un’escalation sempre più drammatica, ben oltre le previsioni e il controllo dei singoli personaggi. L’episodio scatenante è qui la promozione di Iman (Missagh Zareh) a giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria, carica di prestigio che garantirà alla sua famiglia un notevole ritorno economico, pur essendo già benestante. La moglie Najmeh (Soheila Golestani) è entusiasta, e annuncia alle figlie che presto si trasferiranno in una casa più grande, dove potranno avere ciascuna la propria camera.
Il loro stile di vita è chiaramente borghese, di impronta laica, mentre le ragazze – Rezvan (Mahsa Rostami) e Sana (Setareh Malek) – inseguono tendenze e passioni “globalizzate”, non diverse dalle loro coetanee occidentali. Lo abbiamo appena visto in Tatami e Il mio giardino persiano: laicità e libertà sopravvivono all’interno delle mura domestiche, dove nemmeno il regime teocratico può arrivare. D’altra parte, lo stesso Iman ha un rapporto conflittuale con l’autorità, ed è costretto a mettere in discussione la sua etica professionale quando i superiori gli chiedono di avallare delle condanne a morte senza nemmeno esaminare le prove.
Essendo un lavoro rischioso, gli viene persino assegnata una pistola d’ordinanza, che però Iman non è in grado di tenere al sicuro. Lo snodo principale della trama è proprio questo: la pistola sparisce, e nessuno sa dove sia finita. Iman sospetta delle figlie, che negano fermamente, ma i rapporti degenerano in seguito alle proteste contro l’obbligo di indossare l’hijab. Rezvan vi partecipa insieme a una sua compagna di università, Sadaf (Niousha Akhshi), che viene ferita dalla polizia e si rifugia in casa dell’amica. Najmeh, presa tra i due fuochi del marito e delle figlie, accetta di aiutarla, ma fatica a empatizzare con le manifestazioni. Il suo sogno borghese sta ormai crollando. Iman è sempre più esasperato, e per ritrovare la pistola sembra disposto a qualunque cosa: è pur sempre un funzionario pubblico, e vede le rivendicazioni femministe come “propaganda del nemico”.
Di fatto, la sua oppressione nei confronti della moglie e delle figlie diviene una sineddoche del regime, laddove quest’ultimo è simboleggiato dall’eponimo “fico sacro”: il Ficus religiosa, diffuso nel subcontinente indiano, è una pianta che si avviluppa intorno a un altro albero fino a strangolarlo, proprio come fanno le dittature. Rasoulof oscilla così tra impegno politico, thriller e dramma familiare, con una ricchezza di sviluppi narrativi che pare quasi dar luogo a tre film diversi, ma sempre ben integrati fra loro. Persino il terzo atto – quello che si prende più rischi – ha in realtà una funzione cruciale, poiché porta a compimento la suddetta sineddoche. I funzionari della teocrazia finiscono per interiorizzarne le dinamiche più brutali, e la prevaricazione si verifica anche su scala privata.
Proprio in virtù della sua voce critica, Il seme del fico sacro è un grande esempio di cinema ribelle, girato in clandestinità fra mille problemi logistici e giudiziari: Rasoulof, già condannato in passato per propaganda contro il regime, ha subìto un’altra condanna dopo l’annuncio della partecipazione del film al 77. Festival di Cannes, ed è stato costretto a lasciare l’Iran al termine di un viaggio a piedi durato 28 giorni. La post-produzione si è svolta in Germania con il montaggio di Andrew Bird, che alterna il girato di Rasoulof alle vere immagini delle proteste per la morte di Amini. Il risultato non è solo un film di pregio, ma una preziosa testimonianza d’epoca: l’ennesima dimostrazione di quanto il cinema possa farsi documento generazionale, in grado di attestare la Storia nel momento stesso in cui accade.