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Heretic, la recensione del film di Scott Beck e Bryan Woods

Pubblicato il 19 febbraio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

La prima inquadratura di Heretic è un carrello che ritrae due ragazze di spalle: sedute su una panchina, Sorella Barnes (Sophie Thatcher) e Sorella Paxton (Chloe East) discutono di profilattici con curiosità adolescenziale, mentre l’inquadratura – indietreggiando – rivela che sullo schienale della panchina c’è proprio la pubblicità di un preservativo. È un incipit ironico e paradossale, come il racconto di Sorella Paxton su una supposta rivelazione divina all’interno di un video porno. Fin dal principio, insomma, i registi Scott Beck e Bryan Woods palesano un concetto che dovrebbe essere scontato, ma spesso non lo è: pur appartenendo alla Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni (altrimenti noti come Mormoni), queste predicatrici restano comunque due adolescenti, con gli impulsi e i desideri tipici della loro età.

Il prologo da commedia suggerisce un andamento slow burn, dove gli elementi orrorifici si rivelano per gradi. In effetti, le atmosfere diventano sempre più sinistre quando Barnes e Paxton bussano alla porta del signor Reed (Hugh Grant), uomo dall’aria gioviale che vive isolato in cima a una collina. Reed sembra molto interessato al “messaggio” delle due predicatrici, ma qualcosa non torna: la moglie – che lui sostiene essere in cucina a preparare una crostata di mirtilli – non si fa vedere, il cellulare non prende, e la porta all’ingresso è bloccata da un timer. Mentre Barnes e Paxton cercano una scusa per andarsene, Reed le costringe ad ascoltare una lezione critica sulle religioni organizzate, prima di sottoporle a uno strano esperimento che dovrebbe mettere in dubbio la loro fede.

Heretic è un gioco del gatto col topo che si svolge in gran parte sul piano dialettico e intellettuale, puntando tutto sull’identificazione tra il pubblico e le protagoniste: scopriamo le intenzioni di Reed insieme a loro, ci poniamo le stesse domande, e la tensione nasce proprio da questa incertezza. La prima metà del film è efficace nel costruire la suspense, anche grazie ad alcune valide intuizioni di sceneggiatura, come il parallelo tra le varie incarnazioni del Monopoly e le religioni monoteiste; a Beck e Woods non manca l’ironia, né la predisposizione per la ricerca storica. Purtroppo, nella seconda parte il copione si arrotola su sé stesso, imboccando una strada inutilmente contorta che fatica a trovare una direzione. È come se la loro scrittura procedesse per accumulo, e alla fine si trovasse a dover sbrogliare una matassa esageratamente complicata, della quale hanno ormai perso il controllo. Buffo, se consideriamo quanto era lineare il precedente 65 – Fuga dalla Terra.

I due registi ci provano a sorprendere, bisogna dargliene atto. La rivelazione su chi sia la vera protagonista è un colpo di scena ben piazzato, come pure il casting di Hugh Grant nel ruolo dell’antagonista: non propriamente una novità per lui (ricordate Cloud Atlas e Dungeons & Dragons – L’onore dei ladri?), ma qui l’attore inglese mette in luce una perfidia sardonica che si adatta benissimo al suo personaggio, la cui gentilezza e condiscendenza nascondono sempre una traccia di derisione. Peccato che nelle sue azioni ci siano spesso delle forzature logiche, all’interno di una trama fin troppo involuta. Quello che manca a Heretic, però, è soprattutto il coraggio di allontanarsi dalla solita propaganda conservatrice, la stessa che ultimamente abbiamo visto in Bussano alla porta di Shyamalan.

Sono argomenti delicati, è chiaro: Beck e Woods si interrogano sul trascendente, sulla vita dopo la morte, sulle religioni organizzate come sistemi di controllo. Ma pur suggerendo riflessioni importanti (emblematica quella sulla preghiera), alla fine scadono nell’ovvio, e assegnano al “cattivo” il punto di vista più audace. È un modo come un altro per prenderne le distanze: i valori e le strutture più rassicuranti vengono sempre ricostituiti, mai messi in discussione fino in fondo.