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Dreams, la recensione del film di Dag Johan Haugerud

Pubblicato il 27 febbraio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Tristan Bernard diceva che “il primo bacio non è dato con la bocca, ma con gli occhi”. Se lo sguardo si fa sempre portatore di desiderio, è nel primo amore che esso acquisisce un’importanza capitale: presi dalla tempesta di un sentimento nuovo, guardare equivale ad amare, mentre un’occhiata ha l’intensità di un bacio. Chi si innamora per la prima volta è spesso incapace di fare altro – non ne ha ancora i mezzi – e quindi sfoga la passione sul piano del sogno. Dreams mette in scena proprio questo, ma con una delicatezza che nasce dall’esperienza diretta: rispetto agli altri due film della sua trilogia sulle relazioni (Sex e Love), il norvegese Dag Johan Haugerud attinge infatti ai suoi ricordi personali, e li rielabora in un film di rara sincerità, capace di evocare una reazione molto intima in ognuno di noi.

La storia di Johanne (Ella Øverbye) ha effettivamente un valore universale, nonostante il contesto privilegiato in cui si svolge. D’altra parte, chi non ha mai vissuto un amore adolescenziale burrascoso e disperato, tanto confuso nel suo struggimento interiore? Haugerud coglie proprio la tendenza autoriflessiva tipica degli adolescenti e la manifesta nella voce extradiegetica di Johanne, filo conduttore della sceneggiatura e delle sue rivelazioni. La studentessa racconta così il suo rapporto con Johanna (Selome Emnetu), insegnante di francese per cui prova sentimenti fortissimi e disorientanti. Con la scusa di imparare da lei il lavoro a maglia, comincia a frequentare regolarmente casa sua, fantasticando su una possibile relazione di coppia. Johanne nota ogni più minimo dettaglio della donna che ama, si macera nel desiderio quando sono lontane, ma non c’è mai alcun coinvolgimento fisico tra loro.

Come forma di autoterapia, la ragazza decide di narrare tutto questo in un lungo diario, che fa leggere alla nonna Karin (Anne Marit Jacobsen) e poi alla madre Kristin (Ane Dahl Torp). È qui che Dreams lascia trasparire una scrittura complessa, ricca di ambiguità stimolanti: fino a che punto il racconto extradiegetico è parte del diario, letto dalla nonna e dalla mamma di Johanne? E dove si tratta invece di una comunicazione diretta, rivolta a noi spettatori o magari a un altro personaggio? L’epilogo potrebbe fornire una soluzione, rendendo la struttura narrativa ancora più stratificata. In effetti, il copione di Haugerud si evolve con il dipanarsi della trama, passando dal racconto di Johanne alle reazioni di Karin e Kristin, dentro un un dialogo intergenerazionale che è il vero cuore del film. La madre ne esce un po’ sacrificata (di lei sappiamo solo che frequenta uomini sulle app di dating, restandone delusa), mentre la nonna assume un ruolo più centrale. Poetessa affermata, Karin dà voce a una frustrazione che il cinema spesso ignora: quella di una donna matura cui manca il contatto fisico, e vorrebbe solo “un ultimo abbraccio prima di andare a letto”. Se Johanne brama le relazioni che non ha ancora sperimentato, Karin rimpiange quelle passate o mai iniziate, rammaricandosi di non aver fatto l’amore con un maggior numero di partner.

Dreams

Non a caso, il discorso su sogni e desiderio riguarda sia la nonna sia la nipote. Entrambe sono spesso inquadrate mentre salgono o scendono le scale (quelle del parco lungo il fiume a Oslo, quelle “escheriane” del condominio di Johanna), e le scale stesse sono una metafora del desiderio sessuale nella teoria dei sogni. Tale simbolismo ricorrente si sublima poi nel sogno di Karin, ispirato all’episodio biblico della scala di Giacobbe: una commistione di sacro e profano che arricchisce ulteriormente il suo personaggio. Femminista di seconda ondata, credente convinta, le discussioni tra lei e sua figlia Kristin danno vita ad alcuni tra i dialoghi più riusciti del film, come il memorabile dibattito su Flashdance. Il regista, a questo proposito, non manca d’ironia, poiché sa bene che l’umorismo fa parte integrante della comunicazione umana, ed escluderlo sarebbe innaturale.

Al contempo, sorprende la sua capacità di assumere la prospettiva di generazioni così distanti, pur privilegiando quella di Johanne. Gran parte della storia è filtrata dal suo punto di vista, nonché guidata dall’espressività del suo sguardo: Ella Øverbye, che aveva già lavorato con Haugerud in Beware of Children, è davvero bravissima a trasmettere lo stato d’animo del personaggio senza parlare. Il resto del lavoro lo compie la fotografia di Cecilie Semec, che esplicita la differenza tra realtà e fantasia grazie alla temperatura di colore; l’appartamento dell’insegnante passa infatti dal caldo avvolgente del sogno alla spigolosa freddezza del mondo reale, non appena il racconto abbandona la sua fase più idilliaca. Anche la stessa Johanna d’improvviso ci appare più ruvida, persino nei tratti somatici, a sancire la fine dell’illusione.

Siamo chiaramente di fronte a un cineasta che sa portare alla luce delle verità molto intime, come il linguaggio e i tormenti di un’adolescente alle prese con il primo amore. Il cinema norvegese continua a dimostrarsi un acuto indagatore dei rapporti umani, e i tre film di Haugerud dialogano idealmente sia con la Trilogia di Oslo di Joachim Trier sia con le prime regie di Kristoffer Borgli, pur con le ovvie differenze stilistiche e generazionali (Borgli, il più giovane dei tre, è anche il più sarcastico e disilluso). In Haugerud c’è invece la lucidità di chi guarda consapevolmente al passato, ma non dimentica di trattare con rispetto le emozioni tempestose di un’adolescente. “Sono felice che non possa accadere due volte, la febbre del primo amore” diceva Daphne du Maurier in Rebecca. “Poiché essa è davvero una febbre, e anche un peso, qualunque cosa dicano i poeti.” Ecco, è proprio questo che impara la protagonista di Dreams: il primo amore lascia un segno indelebile, ma è anche un punto da cui ripartire.