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A Real Pain, la recensione del film di Jesse Eisenberg

Pubblicato il 26 febbraio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

«Non si può girare per il mondo ed essere sempre felici» dice Benji Kaplan (Kieran Culkin) in una scena di A Real Pain. Lui e suo cugino David (Jesse Eisenberg) stanno visitando i luoghi della Shoah in Polonia, paese natale della loro nonna, sfuggita alle deportazioni degli ebrei ed emigrata negli Stati Uniti. Fanno parte di un tour organizzato: viaggiano con una guida insieme a un gruppo di sconosciuti, alloggiano in hotel lussuosi e hanno biglietti di prima classe. Rispetto agli altri membri del tour, però, Benji è l’unico che vede il paradosso di questa situazione, e ne soffre profondamente; come possono cullarsi nel privilegio – si chiede – quando i loro antenati hanno vissuto l’orrore più grande della storia umana?

Il film di Eisenberg si dipana da un’idea classica, la “strana coppia” che condivide un percorso di vita. David e Benji, nati a sole tre settimane di distanza, sono cresciuti insieme, ma non potrebbero essere più diversi: il primo è ansioso e inquadrato, con una moglie, un figlio e un impiego sicuro; mentre il secondo è uno spirito libero, magnetico e idealista, che non ha un lavoro e vive nel seminterrato di sua madre. Sei mesi prima, al culmine della depressione, ha tentato il suicidio. Poiché la defunta nonna era per Benji un fondamentale punto di riferimento, David gli ha proposto di partire alla ricerca delle sue origini, e passare così un po’ di tempo insieme dopo anni di distacco. Un giovane studioso di Europa Orientale chiamato James (Will Sharpe) li guida prima a Varsavia, poi a Lublino e nel campo di sterminio di Majdanek. Ben presto, però, Benji manifesta la sua insofferenza nei confronti del viaggio, che gli sembra fin troppo turistico e lontano dalla realtà del posto.

A Real Pain

Attraverso di lui, A Real Pain sintetizza in modo accurato (ma senza eccessi didascalici) l’esperienza dei sopravvissuti di terza generazione a contatto con le loro radici. David e Benji sono nati negli Stati Uniti, non sono nemmeno praticanti, e sono stati plasmati dalle comodità e dal consumismo del nuovo mondo: di fronte ai luoghi della memoria, non possono che provare un senso di estraneità e alterità. A questo contribuisce senza dubbio la rigidità di un “tour dell’Olocausto” ritualmente impostato, non diverso da qualunque altro pacchetto turistico, nonostante la drammaticità del tema. Non a caso, i momenti più autentici sono quelli in cui Benji costringe David ad abbandonare il tragitto predefinito, saltando la fermata del treno o fumando erba in cima a un palazzo. Quando poi salutano il gruppo per cercare la casa in cui visse la nonna, il loro viaggio diventa più simile al quest tourism di cui parlava E. Lehrer: un’esperienza guidata da motivazioni personali, in compagnia di un familiare, per risalire alle radici della propria famiglia e della sua storia (ricordate Ogni cosa è illuminata di Jonathan Safran Foer?).

Eppure, davanti al modesto edificio in cui tutto ha avuto origine, Benji non può fare a meno di esprimere la sua delusione: «È così insignificante» commenta il ragazzo. Come molti sopravvissuti di terza generazione, anche i protagonisti di A Real Pain scoprono che non c’è molto da vedere, e la culla dei loro avi non è affatto circondata da un’aura di sacralità; anzi, spesso è immersa in atmosfere quotidiane, persino banali, tra l’eredità sovietica delle architetture brutaliste. Sempre che qualcosa sia rimasto, perché nemmeno quello è scontato. Sappiamo bene che la tragedia della Shoah è anche un tentativo di cancellarne il ricordo, operato già dagli stessi nazisti sul finire della guerra: come scrive Gabriele Scaramuzza in L’estetica, la memoria, “l’oblio è angoscia moltiplicata, non sollievo”, e “la traccia che sopravvive monca e distorta è rovina”. Ecco, chi decide di indagare sul passato della propria famiglia nelle terre occupate dai nazisti deve spesso misurarsi con le rovine, vaghe ombre di quello che è stato, non testimonianze a tutto tondo. Estraneità e frustrazione nascono anche da tale presa di coscienza.

Eisenberg coglie queste tracce con grazia e sobrietà, avvolgendole nelle musiche di Chopin (suonate dal pianista israelo-canadese Tzvi Erez) per creare un’elegante sinfonia di suoni e immagini, valorizzata dal montaggio di Robert Nassau. L’esito è piacevolmente disincantato, come si addice a un regista che tratta il pubblico con rispetto. Anche in virtù della sua efficace costruzione circolare, infatti, A Real Pain non vende illusioni, e rigetta la retorica hollywoodiana della crescita a tutti i costi. Non è detto che, alla fine della storia, un personaggio debba trovarsi in una situazione diversa rispetto all’inizio: nella vita reale, il cambiamento è un processo molto complicato che non sempre viene portato a termine. A Real Pain ha l’onestà di ammetterlo, ed è un caso raro nel cinema americano.