La storia del cinema horror è un progressivo avvicinamento alla quotidianità, soprattutto da quando La notte dei morti viventi di Romero ha cambiato il punto di vista sul genere. In tal senso, il fallimento del Dark Universe ha sortito un paradossale effetto benefico sui piani della Universal: se inizialmente il rilancio dei “mostri classici” doveva seguire logiche ad alto budget (con tanto di universo condiviso à la MCU), la brusca virata su produzioni più contenute sta favorendo la libertà creativa, ma anche un’attenzione maggiore alla dimensione quotidiana. Wolf Man segue quindi l’esempio de L’uomo invisibile, e non è certo un caso che il regista sia sempre Leigh Whannell o che la produzione sia curata ancora da Blumhouse, specialista negli horror a basso e medio budget.
Wolf Man riduce addirittura il cast a tre personaggi principali, con un’unica ambientazione tra i boschi dell’Oregon. In questo contesto di natura selvaggia, Blake (Christopher Abbott) è stato cresciuto da un padre duro e militarista, ossessionato dalla caccia a una creatura ferina che gli indigeni chiamavano “volto di lupo”: un licantropo, in sostanza. Blake si è però lasciato alle spalle quella vita, e non ha più rapporti con il padre. Ora fa lo scrittore – seppure momentaneamente disoccupato – e abita a San Francisco con la moglie Charlotte (Julia Garner) e la figlia Ginger (Matilda Firth). Si occupa lui della casa e della bambina, con cui ha un rapporto tenerissimo e privilegiato, mentre Charlotte è dedita al lavoro. Basta poco per intuire quanto Blake abbia preso le distanze dalla mascolinità tossica del padre: il copione di Whannell e Corbett Tuck lo ritrae come un uomo dolce e sensibile, il cui lato protettivo è alimentato dalla cura, non dalla violenza.
È proprio con questo spirito costruttivo che Blake, dopo l’enigmatica scomparsa del padre, propone alla famiglia di partire per l’Oregon e trascorrere un po’ di tempo nella casa che ha ereditato, sperando così di sanare la relazione con Charlotte. Uno strano animale, però, li attacca lungo la strada, e l’uomo comincia a sentire gli effetti di una misteriosa infezione. La mutazione è graduale, come nei classici del body horror: Wolf Man richiama infatti quel preciso retaggio cinematografico (soprattutto La mosca di David Cronenberg e altri cult degli anni Ottanta), più che l’originale di George Waggner con Lon Chaney Jr.. Non c’è spazio per il folclore tradizionale in questa rilettura, niente luna piena né proiettili d’argento; Whannell, piuttosto, attinge alla paura del contagio e alla frustrazione dell’isolamento, tipici dell’era Covid. I sintomi si manifestano con gravità progressiva, senza che Blake subisca una trasformazione immediata. Al contrario di quanto accadeva in Un lupo mannaro americano a Londra (tuttora la più grande riproposizione del mito del licantropo), quella di Blake è una tortura lenta e inesorabile, cui Charlotte e Ginger possono solo assistere impotenti.
Così facendo, Whannell valorizza il lato tragico della vicenda, invece della doppiezza storicamente insita nel lupo mannaro. Wolf Man, di fatto, è un melodramma horror dove le reazioni emotive al fenomeno mostruoso (di tutti i personaggi) contano più del mostruoso stesso. Beninteso, il regista australiano confeziona un horror in piena regola, con i suoi jump scare e accenni di disgusto nella mutazione del corpo, ma il fulcro è più interiore che esteriore. L’orrore vero non è il licantropo o i pericoli che comporta, bensì la consapevolezza di perdere una persona amata, soprattutto da parte di Ginger: quel padre amorevole scivola via, non è più in grado di capire la sua famiglia né di comunicare con essa, e cede a comportamenti sempre più animaleschi. Un barlume di umanità resta però ancora vivo in lui, e l’aspetto meno ferino del mostro (più vicino a Il segreto del Tibet di Stuart Walker – la prima produzione Universal sull’Uomo Lupo – che al film di Waggner) contribuisce a rendere l’idea; è una creatura ibrida, non un vero e proprio lupo antropomorfo.
Ciò che ne risulta è un film teso e compatto, con ottimi trucchi pratici – opera di Arjen Tuiten – e un discorso interessante sul peso dell’eredità maschile. Blake sente sulle spalle il lascito del padre, trasmesso in modo esplicito nel prevedibile colpo di scena che dà una svolta alla trama: Wolf Man diventa così la lotta di un uomo con sé stesso, ma anche di un maschio “evoluto” – quindi capace di abbracciare il suo lato più sensibile, che si prende cura del prossimo – contro un retaggio millenario fatto di violenza e oppressione. In altre parole, una sfida che troppi uomini al giorno d’oggi rifiutano di accettare. È forse per questo che la sceneggiatura tralascia qualcosa nel rapporto fra Blake e Charlotte, invero un po’ evanescente, ma dà spessore a quello tra l’uomo e la figlia: è lì che si combatte la battaglia per l’anima di Blake. Così, anche senza l’inquietudine strisciante de L’uomo invisibile, Whannell riesce comunque a rileggere il mito sotto una luce contemporanea, peraltro evitando le trappole dell’ironia e della complicità con lo spettatore. Un horror che ha qualcosa da dire, ma che al contempo non dimentica i codici del genere.