Nonostante sia uno dei testi fondativi della cultura occidentale, L’Odissea di Omero ha avuto pochissime trasposizioni cinematografiche, la più importante delle quali resta tuttora l’Ulisse di Mario Camerini. Più numerosi sono stati gli adattamenti televisivi, anche perché l’ampiezza del poema omerico favorisce la serialità, tra produzioni italiane (celebre lo sceneggiato Rai di Franco Rossi) e ambiziose miniserie internazionali (ricordate quella di Andrej Končalovskij con Armand Assante?). In attesa di scoprire cosa combinerà Christopher Nolan nel suo prossimo colossal, Itaca. Il ritorno di Uberto Pasolini fa una scelta narrativa di grande spessore, e focalizza il racconto sull’ultima parte dell’opera: quella che gli permette di alleggerire la storia fino all’essenziale, puntando tutto sui risvolti umani.
Non ci sono interventi divini nella rilettura di Pasolini, anche sceneggiatore con John Collee ed Edward Bond. Il suo sguardo intimista, già dimostrato nei deliziosi Machan e Still Life, mette da parte l’epico viaggio in nave, come pure le creature immaginifiche, la furia vendicativa di Poseidone e gli amori passeggeri dell’eroe: tutto questo è ormai alle spalle quando Odisseo (interpretato da Ralph Fiennes) approda sulle coste della natia Itaca, nudo ed esausto. Il contesto è ben noto, e si mantiene abbastanza fedele al poema originale. Sua moglie Penelope (Juliette Binoche) è ostaggio dei Proci, giunti dalle isole vicine per contendersi la sua mano, e assicura loro che sceglierà un pretendente dopo aver tessuto un lenzuolo funebre per il suocero Laerte; ogni notte, però, la regina disfa il sudario nella speranza che Odisseo ritorni. Intanto, suo figlio Telemaco (Charlie Plummer) rischia la vita ogni giorno per mano degli invasori, tra i quali solo Antinoo (Marwan Kenzari) ostenta un’affettata bonarietà.
Sono passati vent’anni dalla sua partenza, e Odisseo è quasi irriconoscibile, persino agli occhi del fedele servo Eumeo (Claudio Santamaria), che lo accoglie nella sua capanna e lo rifocilla. L’eroe omerico, con il corpo asciutto e il viso scavato di Fiennes, è ridotto ai minimi termini: un uomo prostrato dal viaggio e segnato dalla guerra, ben più in profondità di qualunque cicatrice. Trapela anche da qui, soprattutto nel momento in cui Odisseo condivide i suoi ricordi della guerra di Troia, il vero nucleo del film. Itaca. Il ritorno sovverte il mito eroico per metterne a nudo la fragilità, il lato più ombroso e tormentato. Odisseo non va fiero delle sue gesta, né del suo celebre stratagemma per ingannare i troiani: ha visto l’orrore, ed è l’unico a essere tornato per raccontarlo. Così facendo, Pasolini usa l’epilogo del viaggio per problematizzare il tema della violenza, mostrandone l’inevitabile ricorsività nella storia umana, a livello sia individuale sia universale. Non c’è alcun piacere nel rappresentare la violenza stessa, solo ribrezzo.
A tal proposito, è interessante notare come il film eviti di spettacolarizzare l’azione, e si sottragga a qualunque tendenza modaiola: la regia è sobria, di stampo classico, come pure il montaggio nelle scene più concitate. Nessuna concessione al fantastico, o al dinamismo plastico dei blockbuster contemporanei. Questa Odissea è un discorso terreno, fatto di carne e sangue. L’approccio di Pasolini, in effetti, rievoca più il cinema d’autore degli anni Settanta, con la sua decostruzione dei miti e l’aderenza a una realtà concreta, lontana dai set e dalle scenografie posticce; non a caso, le riprese si sono svolte tra Corfù e il Peloponneso, in ambienti reali. Anche l’incertezza che traspare da alcune scene (la morte del cane Argo, o quella del guerriero affrontato da Odisseo su spinta dei Proci) è frutto di un cinema che ha risorse limitate, e deve imparare ad arrangiarsi. Genuino e materico, mai artificioso.
Certo, non tutto sembra imprescindibile ai fini dell’intreccio, ed è chiaro che il copione si sforza per dare un ritmo e una struttura al racconto: l’inseguimento che precede il terzo atto, ad esempio, è alquanto gratuito e ha l’aria di un un riempitivo. Contemporaneamente, però, Pasolini riesce ad aggiornare il mito senza forzature, come si evince dalla caratterizzazione di Penelope, che non accetta in modo acritico il ritorno di Odisseo; al contrario, ne mette in discussione le scelte con il risentimento di una donna ferita, anche grazie alla performance stratificata ed elegante di Juliette Binoche. Ben lungi dall’assecondare semplicemente la sensibilità contemporanea, Pasolini scava in questi personaggi fino a disseppellirne la verità interiore, quella che li rende umani e fallibili. Perché, in fondo, alla base del mito non c’è altro che questo.