Io sono ancora qui, la recensione del film di Walter Salles

Pubblicato il 14 gennaio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Non c’è da stupirsi che Io sono ancora qui, ripercorrendo le vicende della famiglia Paiva, scelga di incorniciare ogni epoca storica in una foto di gruppo. L’ha scritto Susan Sontag in Sulla fotografia: “Le fotografie sono un modo per imprigionare la realtà. Non si può possedere la realtà, si possono possedere delle immagini; non si può possedere il presente, ma si può possedere il passato.” Gli scatti, non a caso, sono memoria registrata su pellicola, e congelano i momenti più rappresentativi della Storia. In un film dove la memoria stessa ricopre una tale importanza, le foto sono tutto quello che resta: un filo rosso che collega passato e presente, riannodando i ricordi.

La più importante è quella che i Paiva scattano sulla spiaggia di Rio de Janeiro, a poca distanza dalla splendida casa in cui vivono. Siamo alla fine del 1970, e Rubens Paiva (Selton Mello) è un ex deputato del Partito Laburista che lavora come ingegnere durante il regime militare brasiliano, iniziato nel 1964. Sposato con Maria Lucrécia Eunice Facciolla (Fernanda Torres), i due hanno quattro figlie e un figlio: Vera (Valentina Herszage), Eliana (Luiza Kosovski), Nalu (Barbara Luz), Maria Beatriz (Cora Mora) e Marcelo (Guilherme Silveira). Nonostante la dittatura, la loro vita è felice, e il regista Walter Salles gioca moltissimo sull’atmosfera idilliaca della casa, che spesso ospita amici del medesimo credo progressista. Con loro c’è anche la governante Maria José (Pri Helena), che ormai fa parte della famiglia.

Purtroppo, la situazione cambia il 20 gennaio del 1971, quando Rubens viene portato via da alcuni membri dell’esercito, ufficialmente solo per interrogarlo. Il Brasile sta vivendo un periodo di grandi tensioni: l’ambasciatore svizzero è stato rapito da un gruppo rivoluzionario di estrema sinistra, e Rubens è sospettato di fornire supporto ai “sovversivi”. Non farà mai ritorno a casa, come molti altri uomini e donne arrestati dal regime. Eunice comincia a lottare perché la scomparsa di Rubens venga quantomeno riconosciuta, mentre la sua vecchia vita le crolla addosso: quando chiede a Maria José di trovare la chiave per serrare il cancello d’ingresso (finora sempre rimasto aperto), è chiaro che i tempi sono cambiati.

Il cinema latinoamericano indaga da anni sulle dittature militari del secondo Novecento (pensiamo al recente Argentina, 1985 o ai primi film di Pablo Larraín), e Io sono ancora qui contribuisce a questa rielaborazione grazie all’omonimo libro di Marcelo Paiva, divenuto nel frattempo un importante scrittore e sceneggiatore. Salles, abilissimo nella gestione degli attori, mette in scena le interazioni tra familiari con grande naturalezza, rendendo verosimile il clima di affetto e libertà che si respira nella casa: in tal modo, quando il mondo reale bussa alla porta, il contrasto che ne deriva è quasi scioccante, per quanto facile da prevedere. Seguendo il memoir di Paiva, la sceneggiatura di Murilo Hauser e Heitor Lorega ci immerge completamente nello sguardo di Eunice e dei suoi figli, costretti a quello stato di ansia costante che accomuna tutte le famiglie dei desaparecidos (“un’eterna tortura psicologica”, per citare una battuta del film).

In effetti, la drammaturgia di Io sono ancora qui è impostata sul graduale deterioramento dello status quo, visibile nei dettagli: non solo l’episodio del cancello, ma anche la carenza di denaro (Eunice non può accedere al conto in banca senza Rubens), l’abbandono delle attività ricreative, la casa sempre più vuota, l’adorabile cagnolino Pimpão. L’esito è forse un po’ scolastico, eppure funziona proprio in virtù del naturalismo di Salles e delle interpretazioni del cast – su tutte quella di Fernanda Torres. Certo, non ha intuizioni particolari che lo distinguano da altre produzioni simili: è un solido esempio di cinema civile, atto a stimolare consapevolezza verso gli orrori del passato, onorando al contempo chi ha combattuto la giusta battaglia; e già questo non è poco.

Se mai, è proprio la ricorrenza delle fotografie a valorizzare il film. Le immagini – e quindi i ricordi – sono tutto ciò che rimane della persona amata, un segno per rivendicarne l’esistenza nel mondo. Nelle foto si rintraccia così un passato irripetibile, ma che può tornare sotto nuova veste grazie alla lotta di chi non ha piegato il capo alla tirannia (ed è bello che Salles abbia richiamato Fernanda Montenegro, già protagonista di Central do Brasil, per interpretare Eunice da anziana). Ne deriva una celebrazione della resistenza che, dal caso specifico della famiglia Paiva, può davvero farsi universale.

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