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Il mio giardino persiano, la recensione del film di Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha

Pubblicato il 23 gennaio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

La più grande frustrazione del carnefice è la libertà interiore della sua vittima: per quanto violento sia l’operato di un aguzzino, esisterà sempre una dimensione privata – mentale ed emotiva – in cui la vittima conserva una propria indipendenza. Vale anche per i regimi, ovviamente. Il cinema iraniano continua a mostrarci la realtà dietro le mura di casa, quando la teocrazia rimane fuori dalla porta e i cittadini possono vivere liberi, almeno nell’intimità degli spazi domestici. Il mio giardino persiano (titolo internazionale My Favourite Cake, “la mia torta preferita”) contrappone proprio la tirannia dei luoghi pubblici alla libertà di quelli privati, assumendosi una responsabilità che è la linfa stessa del cinema: esplorare la verità del mondo, contestare il potere e accettarne i rischi.

Lo sanno bene Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, coppia nella vita e sul set, i cui passaporti sono stati bloccati prima che partissero per il Festival di Berlino, nel 2024. In un certo senso, è la dimostrazione di quanto il loro film tocchi le corde giuste: la vita privata e i desideri di una donna fanno scandalo, agli occhi della teocrazia iraniana. Il mio giardino persiano racconta infatti la storia di Mahin (Lily Farhadpour), vedova settantenne che vive da sola a Teheran, mentre la figlia e il nipotino sono all’estero. Ex infermiera, passa la maggior parte del tempo a curare il suo giardino, incontrare le amiche e ricordare la vita prima della Rivoluzione khomeinista, quando l’hijab non era obbligatorio per le donne. Ora, invece, la polizia morale ferma le ragazze per strada se non hanno il capo ben coperto, e Mahin interviene per difendere una di loro mentre passeggia nel parco: una scena che restituisce bene l’oppressione del governo autoritario, ancora più drammatica se pensiamo che la morte di Mahsa Amini – divenuta simbolo della lotta al regime – sia avvenuta durante le riprese.

Mahin si fa quindi testimone di un Iran che non riconosce più, diviso tra Shariʿa e globalizzazione, costumi antichi e tendenze dall’estero. I locali che frequentava da ragazza però sono cambiati, e qualunque divertimento sembra ormai precluso a una donna matura come lei, incontri romantici compresi. In un ristorante per reduci, la sua attenzione viene attirata da Faramarz (Esmail Mehrabi), anziano tassista dall’aria tranquilla e dimessa. Hanno la stessa età, e anche lui è vedovo; ha persino trascorso un po’ di tempo in carcere, anni prima, solo perché ha suonato con la sua banda a un matrimonio. Accetta con piacere l’invito di Mahin a trascorrere la notte da lei, a ballare e bere il vino che la donna conserva segretamente in casa. Tra loro nasce subito una grande intesa: sono la prova che un Iran laico sopravvive a livello individuale, nell’intimità del pensiero e dei rapporti interpersonali, come pure degli spazi privati. Lo abbiamo visto di recente anche nel bellissimo Tatami, o nel prossimo Il seme del fico sacro: ci sono confini che nemmeno un regime totalitario può varcare.

Il mio giardino persiano diviene così una tenerissima commedia romantica sulla terza età, non priva di leggerezza e spunti divertenti, nonostante il contesto. Proprio quando pensavano di essere condannati alla solitudine, Mahin e Faramarz danno vita a quella definizione dell’amore resa celebre da Rilke, secondo cui “due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano”. In effetti, Moghaddam e Sanaeeha raccontano proprio la storia di due solitudini che paiono incontrarsi nel momento giusto, e hanno il coraggio di esprimere liberamente l’attrazione che provano l’uno per l’altra, anche sul piano carnale. Una libertà creativa che la coppia sta pagando a caro prezzo: nel settembre del 2023, sia gli uffici della produzione sia la casa di uno dei montatori sono state razziate dalle forze di sicurezza iraniane, che hanno sequestrato computer e hard disk; una copia del film era però conservata all’estero, permettendone l’invio a Berlino. I due cineasti sono stati detenuti nella famigerata prigione di Evin, accusati di “propaganda contro il regime” e di “aver agito contro la sicurezza nazionale”. Al momento non possono lasciare l’Iran, né girare film: la stessa situazione di Jafar Panahi, per intenderci.

In tal senso, i risvolti amari de Il mio giardino persiano riflettono la drammaticità della vita reale, e non è difficile intuirli nel corso del film. Ma ciò che conta è quell’istante nel tempo in cui Mahin e Faramarz sono davvero liberi, proprio come Moghaddam e Sanaeeha ogni volta che prendono la macchina da presa e sfidano l’autorità. Perché il cinema è sempre politico, soprattutto quando ti impediscono di farlo.