«Cambiando il corpo si cambia l’anima» dice Rita in una scena di Emilia Pérez. «Cambiando l’anima si cambia la società.» Ecco, il punto di vista di Jacques Audiard è ben sintetizzato da questa battuta, forse idealizzante rispetto al tema della transizione di genere, ma chiarissima. In questo musical fiammeggiante, pieno di rabbia e passione, al regista francese non interessa raccontare un’esperienza verosimile: vuole piuttosto mettere in scena un’idea, forse un’utopia. E, in quanto tale, essa non si riferisce necessariamente alla realtà.
Sono passati otto mesi dalla presentazione al Festival di Cannes (dove ha vinto il Premio della Giuria e quello per il cast), quindi il fulcro della storia non è più una sorpresa: a Città del Messico, l’avvocata Rita (Zoe Saldaña) si guadagna da vivere rappresentando clienti indifendibili, quando viene rapita dagli uomini di Juan “Manitas” Del Monte (Karla Sofía Gascón), potente boss del narcotraffico. Quest’ultimo sta seguendo una terapia ormonale da due anni, e ora vuole sottoporsi a un’operazione di riassegnazione del sesso. Di conseguenza, offre a Rita un ricco compenso perché gli trovi un chirurgo disposto a operarlo, e organizzi il trasferimento in Svizzera dell’ignara moglie Jessi (Selena Gomez) e dei suoi due figli.
Quattro anni dopo, Rita si sta godendo la sua nuova vita a Londra. Una sera, però, conosce l’eponima Emilia Pérez, che si rivela essere il sopracitato boss dopo la transizione di genere. È a quel punto che il libretto di Audiard (ispirato al romanzo Écoute di Boris Razon) imbocca una delle sue numerose svolte: Emilia si presenta infatti come una persona completamente diversa; ha finto la morte di Juan per sciogliere i suoi legami con il narcotraffico, e crea persino una fondazione che aiuti i parenti delle vittime a identificare i resti dei loro cari. Rita, testimone e complice delle sue gesta, passa così al ruolo di deuteragonista, almeno finché un altro snodo narrativo non cambia nuovamente le carte in tavola.
C’è molto su cui riflettere in questo affastellarsi di eventi, numeri musicali e colpi di scena. Emilia Pérez è un musical, anche se certe dinamiche – come i dialoghi cantati – lo avvicinano di più al melodramma e all’opera lirica: le canzoni esprimono l’interiorità dei personaggi e le loro considerazioni sul mondo (memorabile El Mal), ma anche gli sviluppi della trama. Per intenderci, quando Rita visita una clinica di Bangkok per organizzare l’operazione, l’intera scena è accompagnata da un brano intitolato La vaginoplastia, con il coro che ripete di continuo il verso “[from] man to woman, [from] woman to man”. L’audacia del film è palese, anche nel prendersi il rischio di apparire (volutamente) ridicolo ed eccessivo. La sua forza risiede proprio in questa stilizzazione tranchant dell’intero concetto, che si rispecchia anche nella caratterizzazione di Emilia: contrariamente all’esperienza di molte persone trans nella vita reale, la sua transizione equivale a un cambiamento di identità, anche sul piano morale.
Non è difficile immaginare i dubbi suscitati da questa impostazione. Nella sua recensione su Autostraddle, la critica e cineasta Drew Burnett Gregory ha sottolineato come Emilia Pérez riproduca tutti i cliché storicamente legati ai personaggi trans (il deadnaming, la transizione vista come morte, la donna trans assassina e di natura tragica…), senza far avanzare di un millimetro questa narrazione stereotipata tipica degli autori cis-etero. Sono critiche legittime: per decenni, siamo stati abituati a killer trans o aspiranti tali (Vestito per uccidere, Il silenzio degli innocenti…), come pure a donne trans messe in ridicolo per l’ilarità collettiva (ricordate il finale di Ace Ventura?). Eppure, il cinema ha diritto di creare la sua realtà, e il film di Audiard è libero di fare altrettanto; se sceglie di essere schematico su alcuni aspetti, è proprio per servire meglio tale realtà. In un mondo dove le opposizioni si fanno sempre più radicali, non è difficile capire perché Emilia Pérez alimenti il conflitto tra maschile e femminile, dove il primo rappresenta la violenza e il secondo la compassione: è un’idea alquanto manichea, certo, ma anche l’opera lirica ha sempre vissuto di contrasti netti.
Nemmeno il ritratto del Messico va preso alla lettera, per quanto sia comprensibile il disappunto di una nazione abituata a vedersi rappresentata come un ammasso di cliché folcloristici e criminali, soprattutto dagli Stati Uniti. Certo, Audiard non fa molti sforzi per allontanarsi dagli stereotipi, ma l’ambientazione stessa si nutre dei suddetti contrasti manichei, e non ha pretese di realismo. Va letta in tal senso anche la carenza di attori messicani nel cast: un fenomeno discutibile ma molto diffuso, come sappiamo bene anche noi (quante volte abbiamo visto personaggi italiani interpretati da attori non italiani, nel cinema internazionale?). Fermarsi ai limiti della rappresentazione, insomma, significherebbe ignorare le qualità di un film poderoso, graziato da una regia calcolata al millesimo di secondo, con splendide coreografie musicali e performance di alto livello; da segnalare anche quella di Adriana Paz – lei messicana per davvero – nel ruolo di Epifanía Flores, donna con cui Emilia comincia una relazione. Alla fine, nel suscitare dubbi e sollevare domande, Emilia Pérez adempie ai compiti stessi dell’arte, e sceglie strade impervie che non tutti avrebbero il coraggio di percorrere. Hollywood dovrebbe solo prendere nota.