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American Primeval, recensione: nel (molto) selvaggio West

Pubblicato il 23 gennaio 2025 di DocManhattan

“La violenza è ai massimi storici” dice nel terzo episodio di American Primeval Jim Bridger, trapper, avventuriero e proprietario di un fortino con il suo nome (nonché avo del tenente Aldo Raine, prendendo per buono quanto dice quest’ultimo in Bastardi senza gloria di Tarantino). “Qui c’è solo la brutalità”, gli fa eco un capitano dell’esercito alla fine della stessa puntata. Sono due ottimi modi per descrivere American Primeval, miniserie di 6 episodi uscita questo mese su Netflix e votata a mostrare come anche questo pezzetto di storia della frontiera americana, come buona parte del resto, sia stato scritto imbrattandone le pagine di sangue.

AMERICAN PRIMEVAL

DICAPRIO E L’ORSO

Guardando le prime scene del primo episodio di American Primeval, quei volti anneriti, quelle esplosioni di violenza così crude e feroci, quella natura gelida e totalmente inospitale, è facile che la prima cosa che vi venga in mente sia il film Revenant – Redivivo di Alejandro González Iñárritu. Sì, il film di 10 anni fa in cui Leonardo DiCaprio si è fatto brutalizzare da un grizzly pur di vincere finalmente il suo primo Oscar. La somiglianza non è un caso, visto che è stato lo sceneggiatore di quel film, il newyorkese Mark L. Smith, a creare e scrivere American Primeval.

Anche il periodo storico è grosso modo quello, giusto trent’anni dopo e più a ovest. Gli eventi della miniserie ruotano attorno a fatti storici realmente accaduti, ovvero la cosiddetta Guerra dello Utah, il conflitto tra l’esercito e i mormoni della “Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni”. Questi ultimi erano guidati dal governatore di quelle terre, Brigham Young, un tipo che ha avuto più di 50 mogli e altrettanti figli, e i cui discepoli mescolavano con zelo devozione e massacri. Come quello compiuto da alcuni dei suoi mormoni, travestiti da nativi e affiancati da alcuni nativi veri del popolo dei Paiute, ai danni di una carovana di poveri pionieri.

AMERICAN PRIMEVAL

GAMBIT E LIBERTY BELL

La storia di American Primeval parte proprio da quella carneficina del 1857, nota oggi come Massacro di Mountain Meadows, e segue vari personaggi. Una donna in fuga con suo figlio (lei è la Betty Gilpin della bellissima e purtroppo rimasta incompiuta GLOW) grazie all’aiuto di un esperto di quelle terre (il Taylor Kitsch di John Carter, X-Men le origini – Wolverine e True Detective stagione 2); un mormone alla ricerca di sua moglie (Dane DeHaan e Saura Lightfoot-Leon. Al primo, con quello sguardo, riescono sempre bene i ruoli da pazzo); una tribù di shoshoni guidati dal combattivo Penna Rossa (Derek Hinkey); tutto un corredo di cacciatori di taglie, tagliagole e membri della milizia di Young, alla ricerca di questo o quello dei precedenti personaggi e armati delle peggiori intenzioni.

E trattandosi di una storia, come detto, estremamente brutale, non tutti arriveranno evidentemente ancora interi alla fine della miniserie.

AMERICAN PRIMEVAL

SULLA STRADA

E ok, feroce è feroce, American Primeval. Ma vale la pena di dedicargli le cinque orette circa che si porta via? Diciamo che, pur senza brillare mai davvero, si lascia guardare. Ha alcuni momenti davvero brutti, come la scena con i lupi poco prima della fine, che sembra pescata da un B-movie, ma ha anche delle interpretazioni solide dei suoi protagonisti e un’atmosfera particolare: cruda e malinconica allo stesso tempo. Un mood che, per farla breve, ricorda in più aspetti quello di opere come The Road e The Last of Us, pur senza raggiungere mai i momenti più alti e commoventi delle stesse. Tanto che c’è pure qui, a un certo punto, una scena da mondo post-apocalittico, ambientata tra le ceneri di un accampamento bruciato popolato da mostri e pronta a ricordarti, per l’ennesima volta, che il nemico naturale dell’uomo è l’uomo. Scusa, Plauto, ma duemila e duecento anni dopo, la faccenda dell’homo homini lupus sembra che non l’abbiamo ancora compresa del tutto.

Aggiungete poi una violenza estremamente esplicita e secchiate di sangue, chiamate a sottolineare la lezione di Gangs of New York di Scorsese, ovvero che queste sono le mani che hanno costruito l’America. Il come , in questa “storia primordiale americana” e in quello che è venuto subito prima e subito dopo, non è per niente una faccenda piacevole.

AMERICAN PRIMEVAL

PICCOLO GRANDE SOLDATO BLU CHIAMATO CAVALLO

Va ovviamente detto che nulla di tutto ciò è di per sé nuovo, e che i western efferati, feroci e cinici che mostrano la frontiera per l’inferno polveroso e violento che è stato ce li abbiamo da oltre sessant’anni. Ci hanno pensato i film di Sergio Leone e Sergio Corbucci, sin dagli anni 60, a tracciare la via. Una via su cui si sono buttati, nel decennio successivo, i western revisionisti dei registi della New Hollywood, pieni di antieroi che lottavano innanzitutto contro il sistema e simboleggiavano la guerra nel Vietnam.

Ecco, se pure voi, metti, avete avuto un padre innamorato di questo genere di pellicole, e prima di arrivare alle medie avevate già visto almeno una mezza dozzina di volte l’uno i vari Il piccolo grande uomo, Soldato blu, Un uomo chiamato Cavallo, Corvo rosso non avrai il mio scalpo! etc; se avete letto Ken Parker, più volte; se avete consumato la VHS di Kevin Costner che fa amicizia con i Lakota e con Due Calzini in Balla coi lupi, sapete cosa aspettarvi e, al contempo, vi sentirete immediatamente a casa nelle gelide terre innevate di American Primeval, in cui prima si uccide e poi, nel caso, si pensa, e piene di Giuda disposti a tradire anche per molto meno di trenta denari.

Arrivata la fine, questa miniserie ti lascia con quel velo di tristezza. E lì puoi solo ringraziare il cielo, o qualunque cosa in cui credi, di esser nato/a in tempi e luoghi migliori. Beh, leggermente migliori.