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A Complete Unknown, la recensione del film di James Mangold

Pubblicato il 20 gennaio 2025 di Lorenzo Pedrazzi

Non sarebbe affatto strano veder comparire Llewyn Davis nella New York di A Complete Unknown, magari tra gli avventori del locale in cui Bob Dylan si esibisce per la prima volta. Se il film dei Fratelli Coen raccontava la scena folk newyorkese sulla soglia di un cambiamento epocale, il biopic di James Mangold ricostruisce ciò che accadde dopo, quando un “perfetto sconosciuto” del Minnesota giunse nella Grande Mela e rivoluzionò non solo la musica folk, ma il concetto stesso di cantautore.

In effetti, la sceneggiatura di Mangold e Jay Cocks (basata sul libro Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica di Elijah Wald) parte subito da un’intuizione validissima: i biopic funzionano meglio quando isolano un periodo specifico nella vita del soggetto, invece di sintetizzarne la vita intera. A Complete Unknown sceglie quindi di tracciare l’ascesa di Dylan nell’industria musicale, dall’arrivo a New York nel 1961 (per far visita al suo nume Woody Guthrie, in ospedale per l’aggravarsi della malattia di Huntington) fino alla controversa decisione di passare agli strumenti elettrici, durante il Newport Folk Festival del 1965. Quattro anni decisivi, insomma, che il film condensa nel legame fra Dylan (Timothée Chalamet) e i colleghi musicisti: dallo stesso Guthrie (Scoot McNairy) a Pete Seeger (Edward Norton), passando per Johnny Cash (Boyd Holbrook), il manager Albert Grossman (Dan Fogler), la fidanzata Sylvie Russo (Elle Fanning) e ovviamente Joan Baez (Monica Barbaro), con cui Dylan ha avuto un rapporto burrascoso.

È chiaro che Mangold non è interessato a riprodurre pedissequamente la realtà. Come già in Walk the Line e Ford v Ferrari – sue precedenti incursioni nel cinema biografico – il regista newyorkese rielabora i fatti in una drammaturgia accattivante, tipica di Hollywood: la relazione con Sylvie (personaggio fittizio ispirato all’artista Suze Rotolo) diviene quindi il fil rouge romantico della storia, mentre gli antagonisti di turno sono i puristi del folk che si oppongono agli strumenti elettrici. Ciò che ne deriva è un racconto facilmente riconoscibile, non privo di conflitti drammatici e sentimentali, all’interno di un arco narrativo completo. Fedele alla tradizione dei biopic, A Complete Unknown sottolinea i momenti cruciali tramite le reazioni dei personaggi: ogni volta che Dylan fa qualcosa di memorabile (come nella sua prima esibizione pubblica, o quando canta The Times They Are a-Changin’ al Newport Folk Festival), gli astanti paiono sempre consci di assistere a un evento straordinario, per quanto tale consapevolezza sia soltanto retrospettiva. È difficile non guardare al passato con la nozione del presente, un limite molto comune tra i biopic.

Meno celebrativo, e forse per questo più interessante, è il ritratto di Bob Dylan sul piano umano. La sceneggiatura non smussa le asperità del suo carattere, soprattutto nel rapporto con le donne: Dylan diventa così l’archetipo dell’artista spigoloso, sfuggente e anaffettivo, ma sempre pronto a riconquistare – anche solo per una notte – la persona di cui sente il bisogno in quel preciso momento. Lo sguardo indolente e la voce strascicata di Chalamet comunicano proprio l’idea di un uomo poco incline ai rapporti sociali, sempre in direzione ostinata e contraria rispetto ai desideri altrui. La scelta di passare alla chitarra elettrica riflette questa sua insofferenza: Dylan è un innovatore che non si lascia inscatolare in un singolo genere. A Complete Unknown contrappone la sua pulsione rivoluzionaria al supposto dogmatismo degli organizzatori del festival, e prende per buona la versione (contestata dal co-direttore Bruce Jackson) secondo cui le proteste del pubblico furono innescate proprio dal suo “tradimento” della chitarra acustica. Che sia vero o meno, è ovvio che al film conviene abbracciare questa interpretazione per scopi drammaturgici, e il risultato non manca di senso spettacolare. D’altra parte, le performance musicali sono l’aspetto migliore: Chalamet, Norton, Holbrook e Monica Barbaro (la vera rivelazione del film) hanno cantato e suonato in presa diretta sul set, dimostrando grandi doti vocali e notevoli capacità mimetiche.

Per il resto, quello che conta è l’immagine ombrosa di Dylan, l’alone di mistero attorno alla sua persona. Non dice a nessuno di chiamarsi in realtà Robert Allen Zimmerman e racconta storie bislacche sul suo passato, come se lo cambiasse a seconda delle occasioni, ricostruendosi ogni volta un’identità diversa (concetto che Io non sono qui di Todd Haynes aveva centrato in pieno). Il suo io fluido ed elusivo si intreccia con l’attualità degli Stati Uniti, declamata dagli schermi televisivi che compaiono in molte inquadrature, perché non si può rievocare la storia della musica folk senza includere la realtà politico-sociale che ne ha sempre ispirato le canzoni. Dylan irrompe qui come un raffinato guastatore, la sintesi di due tradizioni musicali (il folk e il rock’n roll) che si credevano inconciliabili: tradizione e innovazione, impegno politico e svago, collettività e individualità. Mangold riesce a rendere bene il caos di queste spinte contrastanti, imbrigliandole in una raffinata confezione che si giova della fotografia sfumata ed elegante di Phedon Papamichael.