Yellowstone, come è capitato ad altre grandi serie TV, se ne va in modo mesto, triste, un pallido fantasma di ciò che è stata in grado di diventare negli ultimi sei anni. La seconda parte della quinta ed ultima stagione, orfana per problemi produttivi di Kevin Costner, è un elenco di episodi tra lo scadente e il noioso, e il solo responsabile purtroppo è proprio lui: Taylor Sheridan.
Yellowstone è stato senza ombra di dubbio il fiore all’occhiello di Taylor Sheridan, l’uomo che nell’ultimo decennio ha ridato letteralmente vita al genere western, che pareva morto. Ma, come spesso si dice, quando un genere è morto, questo accade semplicemente perché non si sono offerti buoni prodotti al pubblico, cosa che invece Taylor Sheridan, in qualità di sceneggiatore prima, regista poi e infine showrunner, ha fatto in modo esemplare. I segreti di Wind River, 1883, Mayor of Kingstown, le sceneggiature per Hell or High Water, Sicario, Soldado, e poi Tulsa King, 1923… Taylor Sheridan è diventato il beniamino di una certa America, di un certo pubblico, quello che delle metropoli tecnologiche, dei cinecomic e tutto il resto, non ne vuole sapere. Con Sheridan, e grazie soprattutto a Yellowstone, si sognano ancora i grandi spazi delle pianure, gli stetson e gli speroni, la musica country e il whisky. Insomma, regna sovrana l’epica della frontiera, di quel mondo che pare fermo a ciò che era l’America 160 anni fa. Yellowstone è stata tutto questo, ha saputo andare oltre gli stessi limiti del genere, incrociare la telenovela con l’autorialità americana e il dramma shakespeariano, rimanendo però su un livello di verosimiglianza a cui si accompagnavano personaggi accattivanti, psicologicamente complessi. L’epopea del ranch di John Dutton ha fatto di Yellowstone una delle serie di maggior successo nel mondo. Si è trattato di un’immersione in una fetta di America tradizionale, affascinante perché statica eppure sempre in movimento.
Ecco allora che guardare l’ultima parte della quinta stagione di Yellowstone non può che lasciare doppiamente l’amaro in bocca, in virtù di una pigrizia di scrittura, una regia spenta, ma soprattutto pochissime idee se non quella ben poco felice di Taylor Sheridan di cercare di compensare con la sua presenza l’assenza di Kevin Costner. John Dutton era di fatto l’asse portante di tutto, e senza di lui la serie non riesce semplicemente a stare sulle proprie gambe. Ma è Taylor Sheridan il colpevole di questo finale scadente e senza mordente.
Taylor Sheridan è nato e vissuto in un ranch, alla settima arte è arrivato un po’ per intuito, un po’ per caso, armato di talento creativo, ma soprattutto di una competenza che gli ha sempre permesso di risultare sempre convincente. Yellowstone ha sempre avuto nella totale assenza di una visione manichea della società, dell’America, un punto di forza. I Dutton, così come i nativi, i loro avversari che si alternano, tutti loro, non sono esattamente delle anime candide; di fatto Sheridan ci ha fatto affezionare a un ranch che appartiene a una famiglia che usa la legge, la politica, qualsiasi cosa, per i propri personali benefici e quelli di nessun altro. Tuttavia, i dissidi tra Kevin Costner e Taylor Sheridan a livello di produzione e contrattualità, hanno visto l’abbandono del primo, tutto preso dalla sua saga di Horizon. E quindi addio John Dutton, ucciso da misteriosi sicari, una morte che lascia tutto nel caos circa il futuro del ranch, dello Stato del Montana e naturalmente della sua incasinatissima famiglia. Taylor Sheridan non ha trovato altro da fare, da questo momento in poi, che inanellare una serie di episodi uno più noioso e prevedibile dell’altro, senza una nuova nemesi a reggere il gioco o una di quelle vecchie a cui dare nuova vita. I protagonisti si aggirano sperduti e privi di qualcosa da dire.
Il clou? Il 13° episodio, dove Sheridan si diverte a autoincensarsi con il suo personaggio, descritto come il maschio supremo, un 50enne allenatore circondato da pupe, coi pettorali pompati al vento e la carta vincente sempre in mano. La critica si è fatta risate inaudite di fronte a questo narcisismo tossico, che Sheridan indossa da un po’ di tempo, credendo al suo stesso personaggio di cowboy ipertestosteronico. Roba da Steven Seagal. Taylor non sta più tenendo alla qualità delle sue produzioni come prima, lo dimostrano la mediocre Lioness e Landman, altro adagio all’America dei machos brizzolati, delle pupe in bikini e del qualunquismo da boomer. Speriamo che la fine ingloriosa di Yellowstone non preceda quella di 1923 e che Sheridan rinsavisca. Ma intanto, Yellowstone scompare con un silenzio assordante.