Nonostante i 20 lungometraggi, gli 11 cortometraggi, i numerosi progetti televisivi e un libro di filastrocche illustrate, il mondo interiore di Tim Burton non si è ancora rivelato pienamente. E forse non lo farà mai: come molti artisti, anche Burton è un’instancabile macchina creativa, un moto perpetuo di idee che non sempre trovano forma compiuta. Lo abbiamo visto nella bella esposizione di Torino, ma ora Tim Burton’s Labyrinth ci permette di inquadrare il cineasta da un’angolazione diversa, quasi fosse un percorso parallelo, più contorto e introspettivo.
La mostra si terrà dal 13 dicembre 2024 al 9 marzo 2025 presso la Fabbrica del Vapore di Milano, ed è stata creata dalla spagnola Letsgo in collaborazione con lo stesso Burton. L’allestimento concepito dal direttore creativo Felype de Lima e dal coordinatore Álvaro Molina si allontana dalle tradizionali esposizioni artistiche: Tim Burton’s Labyrinth – per usare un’espressione abusata – offre infatti un’esperienza “immersiva”, dove lo spazio non si limita a ospitare la mostra, ma è parte integrante dell’opera. «La mia testa è un labirinto» sostiene il regista di Edward mani di forbice, e il percorso della mostra è proprio un dedalo di stanze tra cui scegliere, che sorprende il visitatore dietro ogni soglia.
Non a caso, nella prima stanza ci troviamo subito di fronte a quattro porte: premendo il tasto rosso al centro della sala, faremo partire una breve sequenza musicale, al termine della quale si illuminerà una delle suddette porte. Ovviamente non siamo obbligati a varcare proprio quella, ma è divertente lasciarsi guidare dal caso. Ogni porta conduce a un ambiente diverso, da cui si diramerà il nostro cammino. Spesso ci troveremo davanti a due o più porte (sempre contrassegnate da un numero), ma talvolta esse conducono alla medesima stanza. Comunque sia, il concetto è chiaro: non esiste un percorso predefinito, siamo noi a costruire il nostro.
Ben presto ci rendiamo conto che ogni sala è caratterizzata da un tema dominante; può trattarsi di un film, certo, ma anche di un soggetto particolare dell’arte di Burton, ricorrente nei suoi disegni come nelle sue regie. L’effetto “immersivo” è garantito dalle scenografie allucinate, dalle dettagliatissime statue a grandezza naturale, dalle musiche originali e dalle proiezioni luminose, che animano sia i pavimenti sia le pareti. Impossibile non provare nostalgia davanti ai bagliori ultraterreni de La sposa cadavere, o non sentire sulla pelle il brulicare degli insetti che zampettano ai piedi di Beetlejuice. Gli allestimenti sono pensati per valorizzare gli aspetti più immediati delle opere burtoniane, quelli che saltano subito alla mente quando pensiamo ai suoi film: colori acidi, rami sbilenchi, spirali ipnotiche, architetture d’ispirazione gotica e fiabesca.
Insieme alle scenografie, però, ci sono le sue creazioni. Disegni, schizzi, dipinti, bozzetti, realizzati sia per i film sia per passione, dato che Tim Burton disegna sempre. L’illustrazione è una valvola di sfogo per la sua fantasia, ma anche una terapia calmante nei momenti di disagio. Disegna per prendersi gioco della realtà, con un tratto nervoso e beffardo che sembra scaturire dai recessi più oscuri della sua mente. È senza dubbio un erede di Edward Gorey, ma molto più inquieto. La mostra dà spazio anche alle creature rimaste confinate sulla carta, talvolta impossibili da definire, come se l’artista le avesse tracciate di puro istinto, guidato solo dalle pulsioni del momento.
C’è la serie dedicata agli animali, quella dedicata alle ragazze, quella sulle creature, quella sulle band e sulle groupie, per fare qualche esempio. E alcune di esse prendono vita, per la prima volta in assoluto: Brandi Pomfret, direttrice dell’archivio del regista, ha dichiarato in conferenza stampa che Burton voleva dare vita ai suoi disegni in questa esposizione, perché nella sua testa li vede sempre in movimento. Ben 75 sue illustrazioni originali sono state quindi animate (alcune stanze sono complete di piccoli schermi con le animazioni), e Burton le ha supervisionate tutte, per fare in modo che si muovessero proprio come voleva lui. Ci sono però anche cortometraggi inediti, compresa una versione animata e condensata di Morte malinconica del bambino ostrica, filastrocca inclusa nell’omonimo libro.
Data la struttura labirintica (per l’appunto) di Tim Burton’s Labyrinth, è facile intuire che non si tratta di un excursus storico. Al contrario, il percorso è casuale, piacevolmente caotico, proprio come se entrassimo nella mente ingarbugliata del cineasta: selezionando una porta anziché un’altra, saltiamo ogni volta in un mondo diverso. Se ne ricava il senso di un’immaginazione sconfinata, dove le idee si affastellano le une sulle altre. Viene da chiedersi se non esista una versione alternativa della sua carriera in cui queste piccole creature bizzarre hanno trovato la strada del grande schermo, invece di rimanere segregate tra i margini di un foglio.
Il labirinto ci consente però di aprire uno spiraglio su quei mondi possibili, e di perderci nella fantasia di un autore che ha allevato molti di noi. Non sorprende che la mostra abbia già avuto 650 mila visitatori fra Madrid, Parigi, Bruxelles, Barcellona e Berlino, e che gli organizzatori puntino a quota 200 mila per l’edizione milanese (in prevendita sono stati già venduti più di 50 mila biglietti). Burton non solo ha marchiato l’immaginario collettivo degli ultimi 40 anni, ma è stato l’alfiere di una rivoluzione che ha caratterizzato tutta la nostra industria culturale, valorizzando gli emarginati, i complessati, i freak e tutti coloro che non si identificano nel conformismo dominante. Ora quella poetica sfiora la retorica, è vero, ma in lui è sempre stata sincera. Burton ha legittimato certe nevrosi e imperfezioni in cui tutti noi possiamo identificarci, mostrandoci quanto possano essere commoventi e poderose nella loro disperata umanità.