Il Nosferatu di Robert Eggers nasce da un’esigenza molto personale, dichiaratamente autobiografica: è un’ossessione che il regista newyorkese si porta dietro sin dall’infanzia, quando vide il capolavoro di Friedrich Wilhelm Murnau in videocassetta, e rimase impressionato da quella sintesi fiabesca del Dracula di Bram Stoker. In adolescenza, Eggers ha persino diretto una rappresentazione teatrale del film, con make up e costumi in bianco e nero. Il remake cinematografico è quindi l’inevitabile conseguenza di un intimo processo decennale, basato sulla gestione della paura e delle proprie fissazioni; non a caso, Eggers usa il cinema horror per assumere il controllo di ciò che lo spaventa, oltre che per omaggiare i suoi numi tutelari.
Viene però da chiedersi come si collochi questa versione di Nosferatu nel cinema contemporaneo. In fondo, entrambi i precedenti occupano un posto preciso nella storia della Settima Arte: se l’originale di Murnau (1922) raccoglie l’eredità espressionista de Il gabinetto del Dottor Caligari e ne espande gli orizzonti, il remake di Werner Herzog (1979) stabilisce un collegamento tra la grande stagione del cinema tedesco – quella della Repubblica di Weimar, per intenderci – e la Neue Welle degli anni ’60/’70. In quanto primo statunitense a misurarsi con una materia tanto delicata, Eggers non sente il peso di un retaggio nazionale, ma ugualmente risale ai capisaldi del suo immaginario cinematografico. Volente o nolente, anche lui appartiene a una tendenza riconoscibile: quella che è stata impropriamente definita elevated horror, ovvero gli horror stratificati e autoriali dell’ultimo decennio, locuzione discutibile perché isola tale fenomeno come se fosse una novità (non lo è: l’horror è sempre stato un genere complesso, e gli autori non sono mai mancati). In tal senso, il suo Nosferatu ha molto in comune con l’horror contemporaneo, seppure all’interno di una poetica che è tipica del cineasta.
La storia è quella che tutti conosciamo. A Wisborg, nella Germania del 1838, Thomas Hutter (Nicholas Hoult) è sposato con Ellen (Lily-Rose Depp), e lavora per l’agenzia immobiliare del signor Knock (Simon McBurney). È proprio il titolare dell’agenzia ad affidargli un incarico prestigioso, che gli permetterà di guadagnare molto denaro: dovrà recarsi in Transilvania per far visita al Conte Orlok (Bill Skarsgård), ansioso di acquistare un maniero a Wisborg. Mentre Thomas è in viaggio, Ellen viene ospitata da un caro amico del marito, Friedrich Harding (Aaron Taylor-Johnson), che vive con la moglie Anna (Emma Corrin) e due bambine. Ovviamente Thomas, giunto dal Conte dopo alcune peripezie, scoprirà che il suo ospite nasconde una natura sinistra: Orlok è infatti un vampiro, e la sua brama è rivolta verso Ellen.
La principale variazione introdotta da Eggers risiede proprio nel rapporto tra il vampiro e la protagonista, legati da una connessione pregressa. «Tu non sei per i vivi, tu non sei per il genere umano» dice Orlok alla donna, la cui sensibilità verso il mondo sovrannaturale è innata. La sceneggiatura non approfondisce molto questo aspetto, utile più che altro a giustificare l’ossessione del Conte per Ellen, e il ruolo chiave di quest’ultima nella battaglia contro il mostro; ciononostante, permette al regista di mettere al centro le pulsioni sessuali della donna, sconvolta da un desiderio segreto che la perseguita fin da ragazza. I migliori adattamenti di Dracula valorizzano sempre il lato erotico della vicenda (basti pensare a quello di Francis Ford Coppola), e in effetti Eggers spinge parecchio sull’ambiguità del triangolo amoroso. Per Thomas, il Conte Orlok non è solo un avversario da fiaba, il drago da sconfiggere in fondo alla caverna: è un formidabile rivale in amore, che dimostra di saper soddisfare sessualmente Ellen più di quanto non faccia lui, seppure attraverso un’estasi mistica e oscura. Non bisogna stupirsi, a tal proposito, che Orlok succhi il sangue delle sue vittime con la posa e la dedizione di un atto sessuale.
Emerge qui il fascino irresistibile del ributtante, un’attrazione malata per il putrido, per l’osceno. Questa versione del Conte è molto diversa da quelle di Max Schreck e Klaus Kinski, entrambe dotate – pur con sfumature diverse – di una maschera lunare, eterea. L’Orlok di Bill Skarsgård è invece molto più sgraziato e terreno, la carne guasta e coperta di piaghe. L’attore svedese è ancora una volta bravissimo nel dare vita a una creatura sovrumana, donandogli una gravitas dal peso quasi insopportabile, soprattutto in virtù del tono sepolcrale con cui pronuncia le battute (Skarsgård ha lavorato con un maestro di canto lirico per abbassare la sua voce di un ottavo). In generale, però, è l’intero film ad avere un passo molto greve e febbricitante, tipico dell’horror autoriale contemporaneo. Il merito è anche della fotografia di Jarin Blaschke, che stinge i colori fino a renderli opportunamente esangui.
Al contempo, è interessante notare come dal lavoro di Blaschke trapelino anche i modelli di Eggers: i movimenti fluidi ed eleganti della macchina da presa rimandano al suo amatissimo cinema gotico (il regista ha nominato Suspense di Jack Clayton e La donna di picche di Thorold Dickinson come punti di riferimento), ma il film cita persino Svengali di Archie Mayo quando Orlok invia il suo richiamo a Ellen. Così, Nosferatu diviene un tipico leviatano postmoderno, che paradossalmente aggiorna il passato attraverso il passato, mentre lo arricchisce di dettagli per rendere la trama e i personaggi più articolati. Non dimentichiamo infatti che Eggers è una sorta di regista-antropologo, e ama radicare i miti nella Storia tramite ricerche molto accurate: non è certo un caso che il corrispettivo di Van Helsing, quasi assente dall’originale di Murnau, qui abbia invece un ruolo cruciale; il Professor Albin Eberhart von Franz (un sempre splendido Willem Dafoe) è necessario perché dotato di conoscenze specifiche sul folclore, rivelandosi in tal senso quasi un doppio di Eggers, che nel personaggio instilla il frutto dei suoi studi. Così, questa rilettura di Orlok si scopre essere legata ai Solomonari della mitologia rumena, e acquisisce una sua unicità che la smarca ulteriormente dal romanzo di Stoker.
L’esito finale è un horror raffinato e solenne, forse un po’ diseguale (il corpo centrale non è potente quanto il primo e il terzo atto), ma guidato da una visione del cinema come macchina carnale, materica, soggetta alle stesse pulsioni degli esseri umani. Già questo non è poco.