Cinema roberto recchioni Recensioni
Quando ero ragazzino le reti private passavano una serie che in Italia si chiamava Lancillotto 008 (il titolo originale era Lancelot Link, Secret Chimp), creata da Stan Burns e Mike Marmer nel 1970 per la ABC. Si trattava di un “telefilm” parodistico che usava scimmie al posto di attori (vestite e truccate come esseri umani e poi doppiate) e portava in scena storie “alla James Bond” ma di stampo umoristico.
Ebbe un grosso e immediato successo negli USA (dove generò anche parecchio merchandising e un certo seguito di culto) ma venne presto chiusa a causa del fatto che, per realizzarla, gli animali impiegati vennero castrati, per renderli più docili e gestibili; le associazioni animaliste insorsero e lo show venne cancellato. Per quanto possa sembrare un’idea assurda, nell’ottica del mondo dello spettacolo aveva pienamente senso, perché le scimmie, gli scimpanzé, i gorilla, al cinema e alla televisione avevano sempre funzionato e funzionato bene, a partire dal King Kong del 1933, forse per un retaggio culturale che si poteva far risalire agli spettacoli del circo Barnum, che erano stati il primo, vero, grande spettacolo di massa degli Stati Uniti e che avevano proprio i primati come loro attrazioni più amate. Quali che siano le ragioni, comunque, le “scimmie” (nel senso più largo possibile del termine) sono cosa comune tanto sul grande quanto sul piccolo schermo, dal Pianeta delle Scimmie (proprietà intellettuale portata al cinema nel 1968 per la prima volta e ancora vivace ai giorni nostri) al già citato Kong (anche lui ben rappresentato in tempi recenti), da Clyde l’orango, che accompagna Clint Eastwood nel film Filo da torcere (Every Which Way but Loose, 1978) a Birra, lo scimpanzé camionista di Truck Driver (serie televisiva del 1979, ispirata proprio dal film con Eastwood), dai gorilla di Michael Apted e Sigourney Weaver (Gorilla nella nebbia, un film basato sulla vita di Dian Fossey, del 1988) a Amy, la primate di Congo (film del 1995 tratto dall’omonimo romanzo di Michael Crichton), dal terrorizzante cebo dei cornetti di Monkey Shines (George Romero, 1988) all’altrettanto spaventevole Gordì, lo scimpanzé di Nope (di Jordan Peele, del 2022), il tutto tralasciando le innumerevoli commedie dove un qualche tipo di scimmia è protagonista come improbabile campione sportivo o comunque inserita in un contesto anomalo. Insomma, a conti fatti, l’idea che sta alla base di Better Man, biopic diretto da Michael Gracey (regista anche di The Greatest Showman, un film sulla storia di P.T. Barnum… coincidenze?) sulla vita della popstar Robbie Williams, dove il cantante non è interpretato da un attore ma da una scimmia (creata digitalmente dalla Weta), a ben vedere non è poi così originale o inedita.
Ma funziona. E funziona su tanti livelli diversi.
Il primo, ovviamente, è quello dello “shock value”, cioè la capacità di qualcosa di suscitare reazioni forti, di sorprendere e di spiazzare il pubblico e, conseguentemente, di interessare. Del resto, lo shock value è qualcosa che Robbie Williams conosce bene e che ha sfruttato sempre al meglio sia sul palco (leggendarie e spesso controverse alcune sue performance), sia fuori dal palco (dichiarazioni pubbliche controverse, scandali, relazioni, litigi…) e anche in molti dei suoi video musicali (basti pensare a Rock DJ).
Il secondo livello è quello metaforico: Williams ci vuole dire che, almeno in parte, lui è più animale di altri, più selvaggio, più istintivo, più primordiale. Quale miglior sistema di farsi rappresentare da una scimmia? Specie se poi quella scimmia (grazie allo splendido lavoro di Weta) è anche, senza alcun dubbio, la sua incarnazione in tutto, nell’aspetto, nel modo di muoversi, nelle espressioni e nello sguardo.
Il terzo livello è quello creativo: avere come protagonista una scimmia e una scimmia creata in CG permette a Michael Gracey di essere molto più inventivo e visionario e di costruire alcune sequenze che non sarebbero state possibili (o non avrebbero funzionato altrettanto bene) con un semplice essere umano.
Il quarto livello è quello del riuscire a distinguersi non solo dalla marea montante di biopic legati alle star della musica, ma anche dalla (bella) docuserie sempre su Robbie Williams, prodotta da Netflix in tempi recenti.
Infine, per ultimo (ma non meno importante), il livello meramente produttivo: con lo “stratagemma della scimmia”, Better Man si è tolto il problema di dove trovare degli attori che potessero interpretare Robbie Williams sullo schermo nelle varie fasi della sua vita, dall’infanzia a oggi, evitando anche quell’effetto Tale e quale show che ha afflitto molte produzioni recenti (sì, Bohemian Rhapsody, parlo con te).
Insomma, “la scimmia” è un’ottima idea. Non originale come si dice in giro, ma davvero azzeccata in tutto e per tutto. Ora però togliamocela di torno e parliamo del film.
Che è un ottimo biopic (ma sarebbe forse meglio dire: autobiopic) dove Williams si racconta con la solita brutale onestà con cui si è sempre raccontato negli ultimi anni. Aggiunge qualcosa di nuovo alla già citata docuserie di Netflix? Sì, emergono altri dettagli sulla storia d’amore con Nicole Appleton e si approfondisce il rapporto dell’ex Take That con il padre (che è poi il tema portante del film), ma non è per avere nuove e scottanti rivelazioni che ha senso guardare questo film che va invece guardato perché è un buon lavoro di autoanalisi, un autodafé abbastanza impietoso che Robbie Williams fa di se stesso, cercando di rimettere assieme i pezzi della sua vita e chiedere “scusa” al maggior numero di persone possibili. Poi, certo, lo fa nel suo stile, quindi, in maniera sfacciata, guascona, provocatoria, un poco nichilista e sempre venata da un dolente senso dell’assurdo, ma è Robbie Williams, lo si ama per quello. Oltre al suo lato psicologico ed emotivo (se in un paio di momenti non vi verrà da piangere è perché eravate fan degli East 17, altrimenti non me lo spiego), il film funziona anche sotto il punto di vista del divertimento, dello spettacolo e, ovviamente, dei numeri musicali, che sono costruiti in maniera maestosa, trascinanti e sempre ben integrati nella storia. Viene voglia di cantare in sala, insomma.
Quindi, concludendo, Better Man è un ottimo film a prescindere dalla materia trattata, visivamente sontuoso, musicalmente straordinario, con grandi effetti speciali, un paio di scene davvero di alto livello per spettacolarità e tantissimi momenti delicati e sentimentali, che vi piacerà anche se non amate Robbie Williams. Se poi lo amate, questo è il film della vostra vita.