Ci sono voluti dieci anni perché Coralie Fargeat attribuisse una forma definitiva alle sue ossessioni. Tra il cortometraggio Reality+ (ora disponibile su MUBI) e The Substance trascorre infatti un decennio, dal 2014 al 2024: due lustri durante i quali la regista francese ha compiuto 40 anni, e per sua stessa ammissione si è sentita insicura di sé stessa, spaventata dalle pressioni sociali che gravano sul corpo di una donna. The Substance dà voce a tali frustrazioni, ma Reality+ dimostra che le riflessioni di Fargeat cominciano molto tempo prima, e che il discorso è in realtà più ampio di quanto sembri.
Il corto si svolge a Parigi, in un futuro imprecisato. Lo skyline della città è dominato da grattacieli colossali, mentre i suoi abitanti sono alle prese con una nuova tecnologia: Reality+ è infatti un chip che permette di vedere sé stessi e gli altri utenti con l’aspetto fisico dei propri sogni, selezionandolo da un vasto archivio di opzioni e combinazioni. Si può utilizzare però solo per 12 ore consecutive, al termine delle quali il cervello ha bisogno di riposarsi. Il timido Vincent (Vincent Colombe) si fa installare il chip e sceglie l’aspetto di un uomo più giovane e attraente (Aurélien Muller), con il quale conosce un’altra ragazza che usa la stessa tecnologia, Stella (Vanessa Hessler). I due cominciano a frequentarsi, ma ben presto sorgono dei problemi legati al malfunzionamento del chip o alla scadenza delle 12 ore.
In poco tempo, Fargeat riesce a costruire una narrazione esaustiva, anche in virtù del colpo di scena finale che corona la storia e i suoi temi. Il Reality+, dispositivo che non avrebbe sfigurato in Black Mirror, veicola ed estremizza l’ossessione per canoni di bellezza irrealistici, quelli che un tempo affollavano soprattutto le pubblicità e i tabloid, mentre oggi dominano le vite idealizzate dei social network. Di fatto, il chip trasforma il mondo esterno in una rete sociale a realtà aumentata: gli utenti possono facilmente riconoscersi tra loro, e vedono solo le rispettive maschere virtuali. Il germe di The Substance, insomma, è già qui, a livello sia tematico sia visuale. C’è l’idea dello specchio come strumento rivelatore, che fa emergere angosce e tormenti legati all’aspetto fisico: il confronto quotidiano con sé stessi alimenta un odio per la propria immagine che spinge Vincent a farsi installare il chip, e la Elisabeth di Demi Moore ad assumere la famigerata sostanza. Peraltro, Reality+ anticipa l’iconografia di The Substance anche sotto altri aspetti, come nel caso della cicatrice sulla schiena che corre lungo la colonna vertebrale, a dimostrazione di come certe visioni fossero impresse da anni nella mente della regista. Senza contare l’alternanza fra utilizzo e decompressione: mentre qui sono 12 ore, nel film sono sette giorni.
Paradossalmente, però, il discorso centrale risulta più limpido in questi 22 minuti che non nei 140 di The Substance, anche perché non è contaminato dal tema della fama e dal contesto hollywoodiano, che rischiano di distrarre l’attenzione. Reality+ finisce così per suonare molto più “attuale”, laddove invece il lungometraggio sembra fare riferimento (in modo più o meno volontario) a una fase dello show business ormai sorpassata. Certo, Fargeat ha un merito enorme: quello di aver riportato il pubblico in massa a vedere un film body horror, dettaglio tutt’altro che scontato. La sua interpretazione delle mutazioni corporee è però di stampo conservatore, e in tal senso i paragoni con David Cronenberg e Julia Ducournau non reggono. Il body horror di Fargeat non esiste all’interno di un processo evolutivo, non è un’opportunità di crescita e contaminazione che garantisce la sopravvivenza – o comunque il miglioramento – dell’essere umano; al contrario, è un mezzo sarcastico e ributtante di “denuncia”, utile per esplicitare le aspettative sociali sul corpo e sulle nostre capacità performanti. Qualcosa da rigettare, non certo da abbracciare come parte di un processo necessario e inevitabile.
Reality+ in compenso centra il punto con maggior precisione, guardando a un presente che – pur usando la rete per cercare connessioni – alla fine si disconnette sempre più da sé stesso, mentre perde contatto con la vera natura del corpo. In fondo il tema è tutto qui: piuttosto elementare, ma ben veicolato all’interno del racconto, e con un epilogo leggermente retorico dove l’urgenza di accettarsi passa in primo piano.