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Prophecy il manga di Tetsuya Tsutsui, noto in Italia grazie all’edizione di J-Pop Manga, è un thriller originale realizzato in collaborazione tra l’autore giapponese con l’editore francese Ki-oon. In Giappone è pubblicato sulla rivista Jump Kai di Shueisha nel 2012, con il titolo Yokokuhan, e pochi mesi dopo in Francia.
Nel manga Paperboy è un anonimo utente della rete che indossa una maschera realizzata con dei fogli di giornale, che annuncia delle “profezie” che si realizzeranno il giorno dopo. Questo misterioso personaggio promette di punire e umiliare chi ha commesso dei torti contro i più deboli, le sue minacce si avverano puntualmente. Presto diventa un eroe tra gli utenti mentre la sezione anti cyber-criminalità guidata dal tenente Yoshino gli dà la caccia.
Dalla serie sono stati tratti un film live action diretto da Yoshihiro Nakamura e sceneggiato da Tamio Hayashi, uscito nei cinema giapponesi nel giugno del 2015 e una serie tv live action intitolata Yokokuhan: The Pain, andata in onda nello stesso anno, a luglio, composta da cinque episodi. In questi episodi Erika Toda ha ripreso i panni di Yoshino.
A Lucca Comics & Games è stato presentato in anteprima un nuovo adattamento live action, questa volta prodotto da prodotto da Brandon Box (Dampyr). In quest’action-comedy diretta da Jacopo Rondinelli (Ride), dietro alla maschera di Paperboy troviamo Damiano Gavino, al suo fianco recitano: Federica Sabatini, Ninni Bruschetta, Haroun Fall, Denise Tantucci e Giulio Greco.
Sinossi
Insieme a Ade, giovane informatico di origini afro-discendenti, Paperboy si troverà a scontrarsi con un arrogante business angel, in una trama che fonde attualità, critica sociale e dinamiche generazionali. Temi come l’influenza dei social media, il mondo del food delivery e le potenzialità della realtà virtuale si intrecciano, offrendo numerosi spunti di riflessione capaci di catturare l’attenzione di un pubblico giovane ed eterogeneo.
Prophecy, prime immagini del live action
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— Screenweek (@Screenweek) April 10, 2024
Nel corso della round-table con il cast, abbiamo parlato della genesi del progetto:
Il produttore Andrea Sgaravatti: Due risposte. La più opportunistica: ci abbiamo provato in tutti i modi ad aprire conversazioni con tanti editori, ma era difficilissimo, è tutto difficilissimo, anche se adesso, a Tokyo, abbiamo contatti con Kodansha, Kadokawa, Bandai Namco, Square Enix. C’è bisogno che tu abbia già fatto qualcosa, devi aver già fatto un adattamento di manga per poter lavorare ad altri adattamenti di manga. So che sembra assurdo perché dici: “Ma come fai a partire all’inizio?” Ma è così.
ScreenWEEK: No, no, ma ti credo.
AS: Capito? Voi siete quelli che possono capire probabilmente. Marco Schiavone ci aveva raccontato di quest’autore, Tetsuya Tutsui, i cui diritti erano in maniera molto unconventional, passati in Francia, quindi dovevi, anche se era un manga pubblicato da Shueisha, passare dalla Francia ed era più facile, da Ki-oon, l’editore francese. Quindi abbiamo detto: “Vabbè, vediamo cos’hanno”. Ci hanno presentato tutti i suoi progetti, tra cui c’era anche Poison City, ma quando abbiamo letto Prophecy abbiamo detto: “Cavolo, questo è figo”. E lì abbiamo pensato: “Che figo, ma visto che era già stato fatto il film in giapponese e anche la serie tv, non ha senso fare un altro adattamento in lingua. Ha senso provare ad ambientarlo in una realtà italiana.”
Ed è quello che abbiamo iniziato a fareAbbiamo cominciato a scrivere e, quando Jacopo si è aggiunto al team, è stata quella la sfida, no? Cercare di renderlo nostro, contestualizzarlo nel background italiano.
ScreenWEEK: Dato che la serie originale è un po’ lunga, quando avete deciso di adattarla in una realtà italiana avete pensato di serializzarla? Se il film andrà bene, come potremmo andare avanti?
Jacopo Rondinelli: Ci sono delle idee, perché uno poi cialtroneggia su… Ah, ma nel due potrebbe essere così, potremmo fare cosa… Cialtroneggia no, poi ti viene, no? Quando fai il brainstorming, pensi quel personaggio che fine potrebbe fare nel due, o… In realtà ci sono già delle idee sul due, volendo. Ovvio che bisogna vedere come andrà questo film.
AS: Anche lanciare la Papergirl alla fine no? È un po’ anche per quello. Abbiamo delle idee, però tanto devono volerlo gli attori, e poi deve volerlo il pubblico, no? Deve avere quel grado di penetrazione per cui sentiamo il calore e diciamo dai.
ScreenWEEK: Andiamo avanti.
JR:Io sono entrato tre anni fa, più o meno, due anni e mezzo fa, mentre parlavo con lui mi ha detto: “Adesso sai, c’è questa cosa, ti interesserebbe?” Ho letto la sceneggiatura, che ai tempi era ancora un po’ in divenire. Devo dire che, quando uno dice “manga da ambientare in Italia”, la cosa personalmente mi suona sempre un po’ strana, perché poi, vabbè, in Giappone c’è tutto un immaginario, c’è una diversità culturale spiccatissima. Però credo che in Prophecy ci siano proprio delle tematiche di fondo e anche delle caratteristiche che riscontriamo; per esempio, penso a Black Mirror, penso comunque anche a tutta una corrente di distopia che c’è e che attraversa un po’ tutto il mondo, sia nel campo delle serie che del cinema, per cui era una storia che si poteva sicuramente prendere e ambientare da noi, ovviamente cambiando delle cose. Poi l’idea di questi supereroi un po’ sgangherati, cioè comunque uno che si fa la maschera con i giornali, la trovavo in linea anche con la filosofia italiana: noi comunque siamo sempre degli “arrangioni”, che con magari una stronzata ci inventiamo qualcosa e riusciamo a cavalcare un pensiero. Quindi, in realtà, dopo un inizio un po’ così, leggendo tutto e leggendo anche il fumetto, ho capito subito che si poteva fare un bel lavoro e prendere quei concetti e riadattarli qui. Poi ci siamo interrogati anche molto sul lato comedy, cioè questa cosa come la rendiamo qui, poi il fumetto finisce tutto in un altro modo ed è anche abbastanza pesante.
Mentre invece, per noi, quella cosa lì non aveva molto senso. Considerando che poi il cinema di genere in Italia è difficile farlo, ha tutti quei codici per cui ormai giustamente anche qui ci aspettiamo da un film di genere un certo tipo di livello, sia in termini di investimento che di qualità. Piuttosto che cercare di fare la Marvel, io penso che sia più interessante in Italia cercare di fare una cosa che abbia personalità e che possa essere, in qualche modo, non un copia e incolla di quello che fanno fuori, che diventa subito un “wannabe”. Quindi, proprio la nostra idea era cercare di prendere l’anima del manga e contestualizzarla, appunto, in Italia come se fosse una storia, tra virgolette, realistica, in senso plausibile, che in Italia fosse successa una cosa del genere.
E il fatto poi che è un film che, penso, non si prende mai totalmente sul serio aiuti anche a dare quella sospensione dell’incredulità per cui uno si vede la storia dall’inizio alla fine senza dire: “Questo è un po’ troppo.” Invece ci sono proprio dei passaggi del film dove il film stesso, secondo me, dichiaratamente non si prende sul serio fino in fondo. Mi viene in mente, me l’ha citato Haroun quando ci siamo seduti, che lui aveva visto Kick-Ass, che è un film che viene da un fumetto; anche quello parla di supereroi ma ha un taglio molto sgangherato, fa un po’ il verso a quel tipo di cinema lì. Chiaramente, altra produzione, altri budget, eccetera, eccetera, però la nostra idea era di fare comunque…
Haroun Fall: Anche Kick-Ass, comunque, è una produzione complessa. Mi è venuto in mente come riferimento perché noi avevamo quello un po’ come modello: cercare di raccontare una storia, una storia che fosse pop, ma che stesse all’interno del genere e che potesse essere accattivante per un pubblico teen. Quindi mi è venuto in mente Kick-Ass perché, mi sembra, 7-8 anni fa, quando è uscito, se non di più, era stata una cosa abbastanza pop, ma che comunque non era considerata un Marvel a tutti gli effetti, era un sotto-Marvel. E quindi gli ho fatto semplicemente questo riferimento a Jacopo, perché mi è venuto in mente pensando al nostro film.
Volevo chiedere ai ragazzi come si sono preparati per mettere in scena questi personaggi, soprattutto se hanno attinto anche alle esperienze personali, se si sono riconosciuti in qualche situazione che hanno dovuto interpretare, pur trattandosi di un film di supereroi.
Damiano Gavino: Io, personalmente, mi sono solo guardato attorno, perché quello che posso dire è che ultimamente vedo che la mia generazione — sono leggermente più piccolo di tutti loro — però vedo che la mia generazione si sta impegnando molto nel sociale. Mi viene da pensare anche solo a qualche manifestazione che c’è stata negli ultimi tempi, cambiando chiaramente argomento. Ad esempio, mia madre è andata alla manifestazione per Giulia Cecchettin dell’anno scorso. Era una che scendeva in piazza negli anni ’70 e mi ha detto che per la prima volta ha visto di nuovo quello spirito per un obiettivo comune, che poi è ciò di cui parla il film. Cioè, è una sorta di vendetta personale che poi diventa un gioco di squadra, che è, a mio parere, ciò su cui si basa il nostro lavoro.
Perché se uno non condivide la scena nel vero senso della parola, se uno non lavora per l’altro e l’altro non lavora per tutti coloro che stanno lì, non esce fuori nulla.
Se uno fa la scena da solo, si vede. Dobbiamo essere sempre in sintonia, è un obiettivo comune.
Quindi, preparandomi per questo personaggio, specialmente per la parte di Paperboy, mi sono semplicemente guardato attorno, perché ultimamente la mia generazione è più attenta al sociale e più attiva da questo punto di vista.
Federica Sabatini: Io, invece, per Erika mi sono documentata molto, perché ovviamente la sua carriera è ben distante dalla mia, per cui interpretarla ha richiesto un po’ di ricerca anche su come si arriva a quel punto. Sicuramente, essendo donna e giovane, è facile vivere maschilismo, sessismo, chi più ne ha più ne metta.
La frustrazione che vive lei nel suo ambiente di lavoro è quella che vive qualsiasi donna in qualsiasi ambiente di lavoro, per cui su quello avevo proprio un terreno fertile per immedesimarmi. Per quanto riguarda, in generale, il film, mi associo sia sullo spirito del collettivo che è necessario per portare avanti un progetto, sia in generale questo film, secondo me, è molto bello perché, con grande naturalezza, riesce a portare un sacco di temi sociali super attuali, di cui si parla tutti i giorni da qualche anno, in maniera naturale e ovviamente in poco tempo. Per cui riusciamo a toccare lo sfruttamento sul lavoro, le seconde generazioni, appunto il sessismo, il maschilismo, e credo che sia un po’ importante come spunto.
Haroun Fall: Io, invece, per preparare questo personaggio, come reference ho sempre avuto il caso Snowden, che era il film che per me era fondamentale, perché non volevo assolutamente che fosse collegato al manga. Cioè, io ho detto: questa è una vicenda reale, perché mi aiutava a pensare che quello che stessimo facendo potesse essere reale. Quindi il caso Snowden era il tipo di programmatore che io mi immaginavo. Ho dovuto pensare anche all’età, perché io adesso ho 29 anni, ho avuto mia figlia a 25 anni, e mi è cambiata la vita; sono diventato molto più grande e quindi dovevo ripensare alla freschezza di una persona di 19-20 anni che vive con una spensieratezza diversa, la vita, la responsabilità, una serie infinita di cose. E poi, il rapporto, il rapporto con Damiano e il fatto di voler sovvertire un sistema o comunque un’ideologia, quello era l’obiettivo di Ade come personaggio, considerato appunto una parte del gruppo. E la cosa che, tra l’altro, è stata difficile anche da raccontare, perché abbiamo avuto poco tempo per farlo, abbiamo cercato di farlo usando qualche sguardo, è stato il rapporto che avevo con lei [Denise, ndr.]. No? Loro si baciano a un certo punto nel film, quando lei arriva a fumare la canna nell’osservatorio. Le ho detto: “Avrei voluto che restassi qui un altro po’.” E semplicemente, con uno sguardo, cercavamo di raccontare un rapporto, perché non c’era tempo in quattro settimane, oppure non avevamo il tempo di una serie per analizzare i rapporti fino a quel punto. Quindi, sono stati quelli principalmente i punti focali della preparazione del personaggio.
Denise Tantucci: Per quanto mi riguarda, io invece ho sempre pensato come reference a Mr. Robot, lo stile di quella serie. Per il mio personaggio, il personaggio femminile che stava nel gruppetto. Anche poi lo stile che abbiamo dato a Grazia mi ricordava un po’ quel mondo dell’underground. Sicuramente Grazia vive per il gruppo in cui sta; è emblematico quello che dice il personaggio di Damiano, che grazie a lui ha ritrovato di nuovo una famiglia dopo aver perso Nelson. Per lei è quello il motore, cioè cercare la giustizia per il suo amico fraterno che è perduto. E secondo me, come dicevo anche in sala, è un sentimento così semplice e forte che è incredibilmente vero, e basta animare e colorare un personaggio per poi creare tutto sul set insieme, perché soprattutto nelle scene corali ci si amalgama tutti e quindi poi il ritmo lo si dà semplicemente stando insieme. Uno può immaginarsi quello che vuole, poi. Però, sono le dinamiche che si creano che fanno il film.
Giulio Greco: Per me viene da cose diverse, a parte che faccio parte della fazione antagonista. C’è questa cosa, che tra l’altro mi diverto moltissimo. Gabriele e Luca sono i miei più cari amici, hanno fatto una start-up con tutte le difficoltà del mondo. Quando penso che Gabriele ha iniziato questa start-up sette anni fa, mi ha raccontato tutto il percorso, le difficoltà, il fatto di raccogliere i finanziamenti, ma non è solo quello. Fondare un team, poi, a un certo punto si sono trovati in 60, sono tante persone. Poi, in Italia, è difficilissimo, perché tra l’altro è il paese con meno unicorni in Europa. Pensiamo che la Polonia ne ha tipo 10 e nel 2024 l’Italia ne ha 1, sono quelli che prendono più soldi dagli investimenti esterni. Quindi questa cosa è curiosa. Loro hanno fatto un percorso straordinario, poi a un certo punto finisce la benzina, non continuano a investire e finisce il sogno. Di punto in bianco finisce il sogno.
Questa cosa mi ha colpito molto, perché vivendola di persona ho avuto tanto materiale su cui lavorarci, quindi questo fattore è sicuramente interessante. Poi c’è un fattore personale, perché secondo me Manfredi è un po’ più grande di loro, io sono un pelo più grande di loro, tranne Fede, anche se poi mi hanno leggermente invecchiato.
Però nella mia vita personale ho fondato una casa editrice con un socio più grande, che ha 75 anni quest’anno, e lui ha creduto in me tantissimo quando avevo 19 anni. Secondo me questa cosa è interessante perché c’è questa questione sociale di persone che non sono per forza tuo padre, tua madre o tuo zio, ma che sono persone esterne nella tua vita che però possono credere in te. Quindi questa unione generazionale tra la nostra generazione e la generazione di persone più grandi, che non necessariamente sono un papà che ti dà i soldi per fare un’azienda, ma magari credono nelle tue capacità. Ci sono queste persone, perché io l’ho vissuto in prima persona. E penso che il lato positivo di Manfredi possa essere questo, nel senso positivo del termine. Probabilmente non si realizza, perché per lui è più importante il suo successo personale, più degli altri. Ovviamente, io rubo l’idea.
E come riferimento cinematografico direi Wolf of Wall Street.
ScreenWEEK: Io ci ho visto anche un po’ Trump.
GG: Sono d’accordo, poi vabbè Matthew McConaughey e Di Caprio sono dei grandi, degli idoli, quindi sicuramente c’è un [imita McConaughey in Wolf, ndr.].
Sicuramente c’è questa cosa della finanza, del potere, del superpotere dei soldi che in realtà poi non è quello del valore, è quello del cercare di sfruttare…
FS: Bramosia…
GG: sì esatto questa cosa qui quindi questi tre fattori nella pesa della bilancia mischiati insieme secondo me hanno un po’ formato il personaggio di Manfredi con un guizzo di The Mask.
FS: Secondo me è divertente perché tutti i nostri personaggi, incluso quello di Ninny che non c’è, sono accomunati dall’ambizione e quindi come realizzare i propri sogni. Tutti quanti trovano un modo diverso di gestire il concetto del potere, quindi averlo, subirlo e il senso di giustizia, cos’è singolarmente per ognuno di noi, quindi portiamo tutti una faccia diversa chi più simile ovviamente, chi più o meno accomunati però andiamo tutti sulla stessa cosa quindi raccontiamo varie facce di questi aspetti che secondo me sono molto belli è vero, e quello.
GG: È assolutamente bellissimo quello che stai dicendo. È questa sottilissima linea tra il sogno e il successo che non sono la stessa cosa, il potere è la linea che taglia a metà il sogno e il successo.
Il sogno è visto in una categoria positiva, passatemi i termini An Ordinary Dreamer, e invece l’altro è un eccezione negativa ma sempre molto vicina a quella linea lì. E tutti i personaggi hanno questa cosa: lo faccio o devo farlo? Potrei farlo ma non lo faccio.
FS: È la lotta anche rispetto il proprio ambiente che sia lavorativo che sia sociale, il proprio ceto no? Riuscire a emergere, ovvero quello che poi facciamo tutti dai 20 almeno ai 30 adesso forse anche i 40 perché raccontiamo proprio queste nostre generazioni di cui facciamo parte nella crisi totale in cui siamo, probabilmente a .
JR: Volevo riallacciarmi a questo discorso, perché secondo me fondamentalmente Profecy parla di rivoluzione. Rivoluzione vuol dire qualcosa che in qualche modo cambia nei personaggi e che scombussola il sistema di conseguenza. Infatti lui rappresenta il sistema e quando succede quello che lui non si aspetta, lui perde completamente la bussola. E questa è interessante, ognuno di loro fa una cosa fuori dall’ordinario, che in qualche modo anche loro stessi non si aspettano da loro stessi fino a un certo punto.
Però, guarda caso, appena decidono di fare quel passo in più, ognuno per conto suo e di conseguenza tutti insieme, il sistema va in cortocircuito, che secondo me è un concetto interessante oggi, dove sembra che a tutti gli effetti ci sia questa grande libertà, e in parte anche c’è, però viviamo veramente molto incasellati e dove ci si aspetta sempre molto un determinato percorso. ‘Tu fai quello, quindi da te mi aspetto questa cosa, tu fai quell’altro’. Mentre invece, insomma, il bello di questo film è proprio, come giustamente diceva Federica, come in qualche modo loro partano in un modo e per lui, per Damiano, per esempio, il suo personaggio, la sua rivoluzione è magari finire in galera.
DG: Però è cambiato qualcosa.
JR: Tutta una serie di cose per cui in galera lui ci finisce sereno, in pace con se stesso. Tant’è che poi nel finale quando arriva il suo amico e gli fa vedere il filmato e questa cosa di Papergirl, lui è proprio felice, non so come dire, ha trovato il suo posto nel mondo.
ScreenWEEK: E forse anche ho portato un po’ di giustizia nei suoi confronti perché l’avevo trattato male.
JR: Certo, assolutamente.
GG: Posso dire un’ultima cosa che secondo me è interessante e mi accodo a quello che dici tu? C’è anche la questione del tempo.
GG: La questione del tempo è fondamentale. Quando c’è la prima scena con i 15 secondi, al di là della struttura del film, mi viene in mente, non so, per dire X Factor, non c’entra niente, però è una carneficina.
Fondamentalmente le persone sono continuamente esposte a una carneficina. Il gladiatore che va nell’arena e si fa mangiare dai leoni e la gente non aspetta altro che quella persona venga mangiata dai leoni, che ci sia un giudizio talmente istantaneo, umiliante, e la gente gode di queste cose.
ScreenWEEK: Per quello mi erano venuti in mente Trump e anche The Billionaire come impostazione.
JR: Per la sigla di Manfredi io mi sono ispirato alla sigla di The Billionaire. Se voi vedete la versione americana è molto, molto peggio, nel senso che è molto più pacchiana, è molto più kitsch rispetto alla sigla di Manfredi, da un punto di vista la realtà supera la finzione.
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JR: Vorrei fare un piccolo appunto sull’approccio, dal mio punto di vista, perché nel film ci sono delle situazioni che rimangono un po’ aperte. Per esempio, Papergirl: è stato fantastico perché, mentre giravamo il film e parlavamo di Papergirl, ognuno pensava che fosse una persona diversa. La maggior parte delle persone diceva che era indubbiamente lei [Federica, ndr.] oppure che fosse Denise. Però ognuno aveva un suo punto di vista. Ecco, per me è importante, in questo momento storico per il cinema… adesso non voglio fare pippe filosofiche, però mi rifaccio molto a quello che nella psicoanalisi si chiama “pensiero insaturo” nel cinema, cioè lasciare allo spettatore delle porte aperte. Per me la gente non deve andare al cinema e tornare a casa con tutte le risposte. Deve andare al cinema e tornare con delle domande. Soprattutto nel cinema d’azione, nel cinema d’intrattenimento: ormai siamo subissati da spiegoni, da cose che devono sempre essere dette ed esplicitate. E questa cosa, diceva Kubrick, la metteva in atto nel cinema, è, secondo me, la morte della creatività, perché lo spettatore ha bisogno, secondo me — e questo fa parte della natura umana — di partecipare al film. Ma partecipare al film non vuol dire solo seguirlo, vuol dire anche metterci del tuo.
JR: Per me quella è la morte.
GG: Anzi vedi le parti più belle, ma in sala ci vedi le parti più brutte.
AS: So che forse non mi darei neanche questi tre minuti, due minuti e mezzo di tempo quindi nei primi cinque secondi già ti faccio vedere… il best! Quello veramente…
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JR: Un laboratorio continuo.
FS: Abbiamo corso, abbiamo sentito l’urgenza, sia nei personaggi che nei ruoli di tutti.
AS: Penso che tutti gli attori hanno dato tantissimo ai loro personaggi nel senso che molti sono proprio intervenuti sulle battute, per esempio Federica, era una battaglia tutte le volte. Il giorno prima diceva: ‘Il mio personaggio non direbbe…’
JR: Io ho apprezzato tantissimo, perché vuol dire che giustamente tu guardi in profondità il tuo personaggio, lo vuoi capire, confrontarti, lei aveva un’idea, io ne avevo un’altra, io dicevo la mia idea, lei mi diceva la sua.
Addirittura poi ci sono delle scene che io le ho pensate in un modo e loro le hanno recitate in un altro, dandogli un altro punto di vista. Io poi non sono uno di quelli che ha la sua idea granitica di come deve essere fatta la scena o di come deve essere un personaggio, anzi, forse lo dicevo prima, il bello di aver lavorato con loro perché veramente loro sono riusciti a dare anche delle sfumature ai personaggi che non ci aspettavamo né io né Andrea.
AS: Era bello quando vedevamo delle scene che noi avevamo tanto discusso, noi le vedevamo in un modo… magari erano più emotive oppure più ironiche e loro a volte le facevano in maniera diversa rispetto a come noi le avevamo in testa, però funzionavano.
JR: Ninni [Bruschetta, ndr.] che girava come un guastafeste dicendo…
AS: A un certo punto c’erano Damiano e Ninni che erano fuori controllo. Potevano fare una comedy tutte le volte che erano insieme.
JR: Una battuta a inizio film, alla fine l’ho tagliata, anche se… All’inizio del film si apriva con, Damiano e Nini. Quando sono arrivati hanno detto: “Oh senti, abbiamo un’idea, facciamo questa cosa qua”. Nella scena d’apertura del film c’era una gag tra loro due che era pure figa, però ho detto: “Non possiamo giocarci subito la simpatia”.
Prophecy non ha ancora una data di uscita.