Cinema Interviste

Barry Jenkins e il lato più intimo di Mufasa: Il Re Leone

Pubblicato il 18 novembre 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Mufasa e Scar sono impressi da trent’anni nel nostro immaginario con una scena molto specifica: Mufasa che cerca di risalire un dirupo dopo aver salvato Simba da una mandria di gnu, e Scar che conficca gli artigli nelle zampe del fratello per farlo cadere. Sono il classico dualismo tra nobiltà e bassezza, tra onestà e fallacia, ovviamente ispirato – almeno nelle dinamiche della storia – a Re Amleto e Claudio nell’opera di Shakespeare. Il Re Leone non nasconde certo il suo riferimento letterario, ma il prequel Mufasa: Il Re Leone prende una strada diversa per raccontare le origini del futuro sovrano: Mufasa e Scar – che in realtà si chiama Taka – non sono affatto consanguinei, e il diritto regale è legato più ai meriti che al sangue.

I primi 39 minuti del film, proiettati dalla Disney per la stampa, inquadrano il contesto nel quale si svolge la storia, racchiusa dalla più classica delle cornici narrative. Dopo gli eventi de Il Re Leone (il remake in animazione fotorealistica uscito nel 2019), Simba sta governando il suo regno insieme a Nala, con cui ha avuto la piccola Kiara. Il compito di farle da babysitter tocca a Timon e Pumbaa, che cominciano subito a raccontarle una versione alternativa – e decisamente fantasiosa – della battaglia finale con Scar. Ci pensa però il buon Rafiki a scegliere una storia più adatta: quella del cucciolo “senza una goccia di nobiltà nel sangue” che divenne Re. Suo nonno Mufasa, per l’appunto.

È da qui che prende piede la vera trama di Mufasa: Il Re Leone, progetto solo apparentemente insolito (è il prequel del remake di un classico Disney), eppure in linea con l’attuale politica della Casa di Topolino: sfruttare il vasto patrimonio della sua storia, riconoscibile a diverse generazioni di spettatori, per rilanciarlo con la sensibilità e la tecnologia del presente. Non è un caso che lo studio abbia deciso di rivolgersi a Berry Jenkins, regista premio Oscar per Moonlight, qui al suo primo blockbuster. Durante la tappa romana del tour promozionale, Jenkins rivela di essere rimasto spiazzato della proposta della Disney, e che solo grazie a sua moglie Lulu Wang (anche lei regista) si sia persuaso a leggere il copione. È stata la scelta giusta: sono bastate poche pagine per convincerlo ad accettare il progetto.

Ho cominciato a leggere la sceneggiatura… la ragione per cui avete visto i primi 39 minuti e 15 secondi è perché lì mi sono fermato durante la mia prima lettura, mi sono girato verso di lei e ho detto “Fantastico, c’è qualcosa di speciale, forse dovrei prendere in considerazione di farlo.”

Jenkins si aggiunge quindi alla schiera di cineasti indipendenti che hanno accettato di lavorare nei grandi franchise, come Chloé Zhao (con Eternals), Ryan Coogler (con Black Panther) e Greta Gerwig (con Barbie).

Credo sia dovuto al fatto che noi siamo la prima generazione… questi franchise non esistevano negli anni ’60 e ’70. Persone come Greta Gerwig e Ryan Coogler, sono tutti amici con i quali ho parlato prima di accettare questo film. Siamo la prima generazione che è cresciuta con questi film mainstream. Sono i film della nostra infanzia, guardavamo cose c ome Il Re Leone, oppure Toy Story, oppure Die Hard, Terminator 2, Independence Day… questo è il cinema con il quale sono cresciuto.

In effetti, Jenkins abbraccia in pieno le opportunità spettacolari di un blockbuster come questo: lo si vede già dal principio, quando il piccolo Mufasa si allontana dai genitori a causa di una piena del fiume, dopo un lungo periodo di siccità. Il suo percorso riflette quello di Simba, con la differenza che Mufasa viene raccolto da altri leoni: Eshe, moglie del re Obasi, lo prende sotto la sua protezione nonostante il parere contrario del marito, e Mufasa cresce come fratello adottivo di Taka, il legittimo erede al trono per diritto di sangue. I due sono quindi fratelli acquisiti, e non potrebbero essere più diversi. Taka è influenzato dall’indolenza paterna (i leoni maschi non fanno che dormire tutto il giorno), mentre Mufasa è allevato dalle femmine, scaltre cacciatrici che gli insegnano ad ascoltare i suoi sensi. Jenkins, a tal proposito, voleva sottolineare proprio il ruolo dell’ambiente nella formazione dell’individuo:

Il Re Leone è un emblema culturale che condividiamo tutti, e per 30 anni abbiamo creduto che Mufasa fosse grande perché era grande, che fosse re perché il padre era re e il nonno era re; e che Scar fosse cattivo perché era cattivo, era nato cattivo, Eppure, io ho sempre creduto a questa idea che conta come vieni cresciuto, più che la tua natura. E vedete, in questi primi 30 minuti, Mufasa perde tutta la sua famiglia e viene portato da Taka, dalla famiglia di Taka. E il papà di Taka è una persona cattiva, gli dice molte cose brutte. La madre di Scar invece dice a Mufasa delle cose bellissime, di essere unito alla terra, di essere unito alle sue sensazioni. Dal momento che uno viene cresciuto da un genitore, e l’altro viene cresciuto dall’altro genitore, si può vedere come finiscono per condurre vite completamente diverse, diventando persone completamente diverse.

Mufasa: Il Re Leone

Tra inseguimenti nella savana e scontri con un branco di sanguinari leoni bianchi, i momenti più suggestivi sono però quelli in cui Jenkins lascia trasparire il suo sguardo intimista, muovendo la camera (virtuale) come se fosse accarezzata dal vento. Ma intimo è anche il rapporto di Jenkins con il film, nonostante quello che si potrebbe credere: il regista ha infatti scovato alcuni paralleli con Moonlight, casuali ma significativi.

In Moonlight, la scena che dà avvio al film quando Mahershala Ali insegna a Sharon a nuotare, e c’è questo temporale che arriva, lui lo tiene per un attimo e gli dice che per dieci secondi sarà al centro del mondo. E poi lo lascia e lo fa nuotare da solo in questo temporale. La stessa cosa succede anche in questo film. Non sono io che l’ho scritto, è semplicemente successo. E penso anche a Sharon in Moonlight che si sente orfano. In certo senso, la mamma c’è ma non c’è, e c’è questo padre putativo che però non è presente. Lui deve attraversare la vita cercando di costruirsi il suo mondo. E riesce ad accettare di essere degno di amore. Potrei descrivere Mufasa esattamente come descrivo Sharon. E anche Taki, sono rimasto scioccato da quante similitudini ci sono.

Il regista ha inoltre scoperto alcune connessioni molto personali con la storia:

Ma la similitudine più grossa è stata a livello di vita personale. Dopo i quaranta minuti che avete visto, Mufasa incontra Rafiki, che non conosceva, conosce Sarabi, Zazu… tutti questi personaggi che non hanno alcun rapporto di sangue con lui. Mufasa però comincia a costruirsi una nuova vita, una nuova famiglia, una nuova comunità. Per me è stata la stessa cosa. Sono andato alla scuola di cinema, ho incontrato Joey, James, i miei produttori. Queste persone che vengono da mondi completamente diversi dal mio, però alla fine abbiamo fatto film insieme per 25 anni, come una famiglia che è cresciuta insieme. Ci sono tante similitudini. E quando trovi queste cose, diventa facile appassionarsi al lavoro che si fa. Mia madre è morta mentre stavo facendo questo film, e non mi sono reso conto di come fare questo film mi stava preparando al trauma di quell’esperienza. È folle. Qualcuno mi ha detto che dovresti essere in grado di prendere un film, metterlo su una parete e indicare continuamente “Sono qui, questo è dove sono adesso.” E io potrei farlo con questo film o con questi film. “Mi trovo in questo punto, o in quest’altro punto.”

Per lui, abituato a gestire attori in carne e ossa, è stata un’esperienza nuova. Ciononostante, Jenkins ha trovato un modo per adattare il suo metodo di lavoro all’animazione in CGI.

Dovevo cercare di capire come potevo far funzionare questo processo nel mio modo di lavorare. Mi servivano anche le persone che lavorano sempre con me, e volevo che fossero coinvolte in questo processo… quindi il direttore della fotografia, lo scenografo, la montatrice, queste tre persone in particolare. Credo che i film siano costruiti da questi tre blocchi di figure: il direttore della fotografia è incaricato di catturare le immagini, il montatore di organizzarle e lo scenografo di riempirle. Io e queste tre persone abbiamo imparato gli strumenti necessari [a una produzione del genere], e li abbiamo piegati alla nostra volontà. E devo dire che la società degli effetti speciali è stata molto aperta. Dal momento che i personaggi si muovono su quattro gambe e gli esseri umani invece si muovono su due, non potevamo fare quello che è stato fatto ne Il pianeta delle scimmie o altri film. E allora cosa abbiamo fatto? Abbiamo registrato prima le voci degli attori, tutti gli attori. Abbiamo fatto una specie di radiodramma, abbiamo fatto il film per la radio. Poi Joi [McMillon, la montatrice] ha preso queste registrazioni e ha montato tutto il film basandosi sulle voci. Poi sono arrivati gli storyboard, hanno creato gli storyboard che corrispondevano all’audio registrato. Poi da lì abbiamo creato la “versione PlayStation 3” del film [ovvero una versione preliminare, con CGI grezza]. Poi abbiamo girato in realtà virtuale.

Ovviamente, però, far recitare degli animali è ben diverso da far recitare degli esseri umani:

Con gli esseri umani, io vi guardo, abbasso lo sguardo, oppure mi si blocca la mascella, e voi potete capire, senza che io parli, quello che provo io. Ovviamente con i leoni tutto questo non si vede, quindi per me si trattava di lavorare sul movimento fisico, trasmettere tutto col movimento fisico: per esempio il personaggio guarda, abbassa lo sguardo, oppure abbassa lo sguardo a una determinata battuta, e così via. Abbiamo quindi usato gli animatori con le tute, perché loro sapevano come tradurre il movimento da due gambe a quattro gambe. Hanno cominciato a disegnare con il corpo, e intanto riproducevamo il suono delle voci degli attori. È stato molto forte per me che dovevo dirigere gli animatori, che con queste tute disegnavano o scrivevano col proprio corpo. Del tipo, a questa battuta ti devi allontanare completamente da lui, non lo puoi guardare perché la battuta è qualcosa di pesante. È così che abbiamo ingegnerizzato il processo.

Il risultato di questo lavoro sarà visibile dal 19 dicembre, quando Mufasa: Il Re Leone uscirà nelle sale italiane. Non perdete il teaser, il trailer ufficiale e l’annuncio dei doppiatori.