Troppe volte abbiamo pianto la fine di Clint Eastwood, e troppe volte – per fortuna – ci siamo sbagliati. Certo, film come Gran Torino e Cry Macho avranno pure celebrato il tramonto dei suoi eroi inossidabili, ma il buon Clint ha ancora qualcosa da dire dietro la macchina da presa, e Giurato numero 2 lo dimostra per l’ennesima volta: a 94 anni, la leggenda di Hollywood tocca ancora un altro genere cinematografico – il dramma processuale – con lo stesso rigore e lucidità che hanno sempre distinto il suo cinema.
Scritto dall’esordiente Jonathan A. Abrams (già co-produttore di Escape Plan), Giurato numero 2 si inserisce in quel sottogenere dei film giudiziari che ruotano attorno al lavoro della giuria, il cui capostipite è ovviamente La parola ai giurati di Sidney Lumet, citato quasi parola per parola in una scena. Il personaggio eponimo è l’ex alcolista Justin Kemp (Nicholas Hoult), redattore di una rivista locale che sta per avere una figlia dalla moglie Allison (Zoey Deutch). Nonostante voglia starle vicino negli ultimi giorni di una gravidanza a rischio, Justin viene selezionato come giurato per un caso di omicidio: il giovane James Michael Sythe (Gabriel Basso) è sospettato di aver ucciso la fidanzata Kendall Carter (Francesca Eastwood) dopo il litigio in un bar, e tutti gli indizi sembrano contro di lui. All’accusa c’è Faith Killebrew (Tony Collette), che cerca voti per la sua candidatura a procuratrice distrettuale, mentre la difesa è nelle mani di Eric Resnick (Chris Messina), avvocato d’ufficio fermamente convinto dell’innocenza di James.
Non appena i due legali presentano il caso, però, Justin comincia a sospettare di essere il responsabile della morte di Kendall: quella notte, dopo aver quasi ceduto alla tentazione dell’alcol, Justin ha investito qualcosa che credeva essere un cervo, ma ora teme si sia trattato della ragazza. Quest’ultima stava infatti camminando sullo stesso ponte, e la pioggia battente impediva di vedere bene; inoltre, Justin era sconvolto per il recente aborto di Allison. Ne risulta un intenso conflitto morale: come deve comportarsi un giurato che scopre di non poter essere imparziale? Justin ne parla con il suo sponsor agli alcolisti anonimi, Larry Lasker (Kiefer Sutherland), che è anche il suo avvocato difensore. Quest’ultimo però lo avverte: con i suoi precedenti per guida in stato di ebbrezza, nessuno crederà che Justin era sobrio la notte dell’incidente, e i rischio di una condanna esemplare è altissimo. Al futuro padre non resta quindi che tentare di salvare Sythe influenzando il resto della giuria, nonostante gli altri undici membri siano tutti propensi a votare per la colpevolezza dell’imputato.
Che decida o meno di ritirarsi dopo questo film, Eastwood non smette di gettare uno sguardo sull’America contemporanea, dove l’idealismo pare solo un mezzo per imbonire le masse. Esemplare il personaggio di Killebrew, soprattutto all’inizio: le sue ambizioni politiche sono inscindibili dalla condanna di Sythe, anche perché Killebrew si fa paladina delle donne per ottenere consensi, o almeno questa è la visione del regista. Eastwood, certamente lontano dal progressismo (talvolta di facciata) che domina Hollywood, ha un’idea ben chiara del nostro presente: Giurato numero 2 palesa dei dubbi sul sistema investigativo e giudiziario, imperfetto proprio perché umano, e dunque fallibile; molto significativo, a tal proposito, il riferimento alla cosiddetta “visione a tunnel”, tipica degli inquirenti quando si concentrano su un unico sospettato. La disamina dei limiti e delle falle del “sistema” va di pari passo con l’esaltazione del singolo, all’insegna di quell’individualismo che ha fatto la storia dell’American Way of Life. In fondo, Eastwod ci vede tutta l’ipocrisia dei Millennial, paladini della giustizia sociale che cambiano rapidamente idea per tutelare loro stessi. La difesa della famiglia tradizionale, nucleo granitico e inviolabile, si vede anche qui: per Allison, lei e Justin diventeranno una famiglia solo dopo aver avuto una figlia («Presto saremo una famiglia» gli dice mentre sono a letto), e Justin deve fare di tutto per difendere quell’istituzione.
Indipendentemente da quello che si pensa, Giurato numero 2 mette ancora in mostra la sensibilità e la perspicacia del suo cinema, sempre attento a non fornire un giudizio etico sulle azioni del protagonista, né a servirci una verità preconfezionata: Eastwood non sottovaluta l’intelligenza del suo pubblico, ma lo stimola a elaborare una propria opinione, a pensare con la sua testa. Funziona bene come thriller, solido e teso nelle sue svolte narrative, nonostante la forzatura logica della premessa iniziale (possibile che le ferite da impatto automobilistico vengano confuse per un’aggressione?). Ma è soprattutto un’opera che sfida lo spettatore con un punto di vista moralmente ambiguo, eppure clamorosamente umano nei suoi dubbi e nelle sue scelte: un degno rappresentante di quel ceto medio che rischia sempre più di scomparire, travolto dai detriti del vecchio Sogno Americano. Attraverso un intreccio giallo, Eastwood fotografa la fine delle antiche certezze, ponendo l’individuo – non la società e le sue leggi – sempre al primo posto. Una coerenza formidabile, se ancora ci fosse stato bisogno di dimostrarlo.