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Anora, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 06 novembre 2024 di Roberto Recchioni

Sean Baker è un grande regista che ha diretto un discreto numero di film, di cui la maggior parte molto belli e anomali, largamente sconosciuti al grande pubblico.
Mikey Madison, Mark Ėjdel’štejn, Jurij Borisov, Vache Tovmasyan, Karren Karagulian sono un fantastico gruppo di attori, dal talento cristallino, che non conosce nessuno.
Anora è il primo film americano a vincere il premio più prestigioso di Cannes, la Palma d’Oro, dai tempi di The Tree of Life di Malick. Nonostante questo, non c’è nessuno che sia particolarmente emozionato per l’arrivo della pellicola nelle sale italiane.
Aggiungeteci pure che il film non ha un genere ben definito (è una storia d’amore, ma è anche una commedia, un dramma, una favola, un ritratto livido della nostra società, un thriller…) e capirete perché non vorrei mai essere il povero ufficio stampa che deve promuovere questo film che, sin dal manifesto e dal trailer, sembra fare di tutto per non voler essere capito e amato.

E invece, Anora merita di essere capito, merita di essere amato, e merita di essere visto dal pubblico più ampio e vasto possibile, perché non solo è uno dei migliori film del 2024 (mi prendo il beneficio del dubbio solamente perché siamo a novembre e qualche titolo interessante deve ancora arrivare) ma è anche un film che contiene qualcosa per ogni tipo di spettatore possibile.

Ma prima, la trama: Anora, una giovane pole dancer di origini russe, conosce il giovane Ivan, capriccioso, immaturo e ricchissimo figlio di un oligarca russo, che si innamora di lei e le chiede di sposarlo. La ragazza, pur rendendosi conto dell’inconsistenza di quel rapporto, accetta. I due volano a Las Vegas e convolano a dissennate nozze. A quel punto, iniziano i problemi. La famiglia di Ivan scopre l’unione e cerca di farla annullare, mandando a occuparsi della cosa un uomo fidato, Toros, e due sue assistenti-scagnozzi. I tre rintracciano gli sposini, ma Ivan scappa, lasciando Anora tra le grinfie degli sgherri del padre, che dovranno convincerla ad annullare le nozze mentre danno la caccia al ragazzo. In questo viaggio, notturno e alienato, il quartetto troverà una strana unione solidale. E poi, forse, anche il vero amore.

Lo ammetto, scritto così non sembra il film che mi precipiterei a vedere. E ammetto pure che, nonostante la Palma d’Oro e il nome del regista (di cui ho apprezzato molto Tangerine e Un sogno chiamato Florida), forse in sala non ci sarei andato se non lo avessi dovuto fare per lavoro. Perché, quantomeno sulla carta (e dal trailer), questo non è proprio un tipo di film per me. Fortunatamente, ho scoperto che mi sbagliavo, perché Anora è esattamente un film per me, dove con “per me” intendo dire per una persona che ama i film scritti, girati e interpretati meravigliosamente e che non si incasellano facilmente in nessun genere specifico; titoli che sanno alternare i toni del grottesco al dramma, il realismo al surrealismo, la farsa alla tragedia, che hanno il senso dell’assurdo e del paradosso e che sono pervasi da un intimo e realistico romanticismo. Film belli non solo perché visivamente belli (e Anora è bellissimo sotto questo profilo) ma “belli dentro”, nelle intenzioni e nel pensiero che c’è dietro, oltre che nella forma e nella realizzazione.

Per quanto tanti momenti di Anora siano esteticamente artefatti, il film ha una onestà narrativa e sentimentale, un realismo e una così profonda “verità”, da riuscire a toccaree nel profondo, senza risultare mai di maniera o forzato. È un’opera sana (cioè integra, priva di buchi nell’animo) e reale (cioè in connessione con qualcosa di vero), concepita e portata a realizzazione da persone ugualmente sane e reali. C’è un poco di Lynch e di Winding Refn in Anora, ma gli autori a cui il film sembra rimandare di più sono i Coen, Ernst Lubitsch e Billy Wilder. In questo senso, Anora può apparire come lo strano e bellissimo figlio di Cuore Selvaggio, Drive, Arizona Junior, Ninotchka e L’appartamento, il tutto mescolato attraverso l’occhio da videomaker e la sensibilità da essere umano fatto di carne e sentimenti, e non plastica e lustrini, di Baker.

Vorrei dilungarmi per spiegare meglio quanto questo film mi abbia incantato, fatto ridere e disperare e di come, soprattutto, sia riuscito a mettermi addosso una certa angoscia di cui poi mi ha liberato, con un finale bellissimo, pieno di piccola grazia, dolore, gioia e infinita speranza, ma so che le parole sono abbastanza inutili.

Dovete vederlo. Andate al cinema. Se non vi piace, scrivetemi e giuro che vi chiederò scusa uno per uno. Ma non succederà, perché vi innamorerete di questo film così difficile da vendere ma così bello da vedere.