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Megalopolis, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 10 ottobre 2024 di Roberto Recchioni

A Hollywood non piacciono gli autori che realizzano film fuori dal loro sistema produttivo. Cioè, piacciono se sono giovani, partono dal basso e sono costretti a realizzare il piccolo film indipendente, a patto che abbiano l’aspirazione di partire da quella posizione umile e, a fronte di un insperato successo, poi entrare nel sistema e diventare come tutti gli altri. Ma un autore di peso, che si fa il proprio film da solo, magari con una messa in scena di primo livello e un sacco di attori famosi, è una cosa che proprio Hollywood non tollera. E a cui si oppone da sempre in maniera decisamente vigorosa e nettamente ostile. Il perché è una storia lunga e complicata e ha a che fare con la United Artists, la casa di produzione fondata nel 1919 da Charles Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e David Wark Griffith, quattro grandi divi dell’epoca e un grande regista, che per la prima volta decisero di unirsi e fare i loro film da soli, stufi dei trattamenti iniqui delle grandi major. All’epoca, un grande produttore scrisse che “i matti si erano impossessati del manicomio” e, negli anni che seguirono, per quanto la UA ebbe notevoli successi e produsse grandi film, venne molto osteggiata, fino al suo fallimento, dipeso in larga parte dal visionario, folle, eccessivo film di Michael Cimino, I cancelli del cielo. Il perché di questa ostilità da parte degli studios tradizionali rispetto ai grandi autori che hanno tentato la strada dell’indipendenza giocando però nell’ambito del grande cinema è facilmente intuibile e presto detto: soldi e potere. Ma, secondo me, c’è anche la paura di mezzo. Paura, in particolare, che qualcosa vada così bene da far pensare anche ad altri che passare per gli studios non sia così strettamente necessario e che può esistere un sistema diverso di far funzionare le cose, oltre a quello vigente. Paura, insomma, che una bambina si trovi tra la folla e si metta a urlare che il re è nudo.

Comunque sia, in tempi recenti ben due grandi registi hanno provato nuovamente la via dell’indipendenza, pur realizzando due film molto costosi: uno è Kevin Costner con il suo Horizon: An American Saga e l’altro è Francis Ford Coppola, con Megalopolis. Entrambi i film, prima ancora della loro uscita nelle sale, hanno subito attacchi di varia natura (spesso davvero infimi) e da varie direzioni, volti a creare un’atmosfera negativa e tossica attorno a queste pellicole. Costner ne è uscito malino, ma sembra aver trovato una maniera per riuscire a portare a compimento il suo ambizioso progetto (che consta di quattro film) e anche la critica ha iniziato a rivalutare l’operazione complessiva a seguito delle proiezioni del secondo capitolo. Meno bene sembra essere andata a Coppola, che prima è stato messo in croce per questioni di budget (come se la cosa potesse interessare qualcuno a parte al regista stesso, che i soldi ce li ha messi di suo), poi è stato messo in dubbio se sarebbe mai stato capace di completare il film (a quanto pare, sì), poi ha subito attacchi per una questione riguardante gli effetti speciali (criticati ancora prima di essere visti) e, infine, accusato di comportamenti scorretti sul set (in seguito le accuse sono rientrate e tutta la faccenda si è completamente sgonfiata). In generale, si è detto che Coppola è ormai un vecchio trombone accecato dall’hybris e che Megalopolis è un disastro annunciato. Le reazioni della critica, dopo le prime proiezioni ai festival internazionali, si sono allineate a questa narrazione disfattista e ben poche sono le voci che si sono alzate per difendere l’ultima opera dell’uomo che ha dato al mondo la saga del Padrino, un capolavoro come Apocalypse Now e film bellissimi come La conversazione, Dracula, I ragazzi della 56ª strada, Rusty il selvaggio, Cotton Club.

Ora, mi piacerebbe dire che una delle voci contrarie alla narrazione dominante su Megalopolis è proprio la mia, che il film è bellissimo e vittima di un complotto ordito dal sistema che ha paura di lui, ma… non posso, perché Megalopolis è davvero un disastro epocale. Ma bisogna almeno dire che è un magnifico disastro come pochi se ne sono visti nella storia del cinema e che vale la pena vederlo anche fosse solo per questo (ma di buoni motivi ce ne sono anche altri, ve li dico dopo).

La trama in breve: in un mondo alternativo dove Nuova Roma è la capitale degli Stati Uniti d’America e tutto sembra uscito da una combinazione tra un film di gangster degli anni trenta e Metropolis di Fritz Lang, due uomini (un architetto visionario e un sindaco cinico) lottano per il dominio sul presente e sul futuro. Di mezzo, l’amore, il potere, il sesso, l’eccesso, la teoria delle stringhe, i Pensieri di Marco Aurelio, la decadenza, le popstar, Donald Trump, il metacinema, William Shakespeare, la filosofia e, soprattutto, il tempo.

Per i primi due atti della pellicola, Coppola riesce a prendere questo materiale magmatico e a imbrigliarlo in un film di senso compiuto, con un buon ritmo e una solida presa drammatica e uno straordinario impatto visivo, il tutto sostenuto da ottime prove attoriali che riescono a dare corpo e sentimenti a personaggi che sono più strumenti che altro. È, di fatto, un film di fantascienza che si colloca tra l’utopia e la distopia (del resto, la lotta tra questi due estremi è il nucleo narrativo di tutta la storia) e che veicola il suo messaggio con le metafore e i simboli, piuttosto che utilizzando un plot pienamente strutturato, sviluppato, organico e coerente. Il film non si racconta, insomma, attraverso le cose che succedono e la loro spiegazione, quanto, piuttosto, attraverso le immagini e i rimandi che quelle immagini sanno suscitare.

Per i suoi primi due terzi, Megalopolis ricorda quanto fatto da Terry Gilliam nel suo capolavoro, Brazil, e da Ridley Scott con un altro capolavoro come Blade Runner (a proposito di film visionari andati malissimo al botteghino), ma l’opera che per approccio e stile gli è più vicina (sin troppo, forse) è il Romeo + Giulietta di Baz Luhrmann. Poi succede qualcosa. Il film ha una cesura netta dove viene infranta la quarta parete e ci si rivolge direttamente allo spettatore per montare un piccolo sermone filosofeggiante e, quando la narrazione torna nei suoi binari, nulla funziona più come prima. Tutto diventa confuso, fuori fuoco, indeciso e stentoreo; le spiegazioni del poco che c’era da spiegare o non arrivano o, quando arrivano, non hanno senso e non chiariscono nulla. I personaggi si agitano convulsamente in un andirivieni di azioni ed emozioni non giustificate da nulla a parte da una serie di “perché sì”, davvero difficili da spiegare, e il film diventa una sbilenca soap box su cui Coppola prova a tenersi faticosamente in equilibrio per lanciare un puerile messaggio di immotivata speranza, indicando una soluzione per tutti i problemi del mondo che tale non è.

Onestamente, non mi è chiaro cosa sia successo esattamente tra la prima ora e mezza del film e i suoi successivi quaranta minuti, ma deve essere stato qualcosa di dannatamente grave, che ha compromesso un esito che, altrimenti, poteva essere se non eccezionale, almeno buono. Perché, sì, i primi due atti del film sono troppo convinti della loro aulica ricercatezza e di stare portando in scena qualcosa di particolarmente raffinato e culturalmente innovativo (spoiler per noi europei: non è così, Coppola sembra un giovane liceale che scopre per la prima volta i classici latini e greci e William Shakespeare), ma avevano una loro piena godibilità. Era un film decisamente bello a vedersi, che filava via abbastanza liscio, con ottime interpretazioni. Poi, dopo i cinque minuti di meta-locura, è come rientrare in un altro film dove niente, ma davvero, niente, può essere anche lontanamente salvato. Questo film è come un razzo spaziale al decollo: parte bene, sembra diretto se non proprio verso le stelle, quantomeno verso l’orbita alta del nostro pianeta, ma poi esplode senza motivo, con i suoi pezzi che vengono sparati in mille direzioni diverse.

Eppure.
Eppure merita di essere visto, a mio parere. Perché è un film sbagliato, un film brutto, se vogliamo essere brutali. E in quest’epoca di film-prodotto mediocri e tutti uguali, anche film così palesemente disastrosi come Megalopolis sono diventati una merce rara, come quelli belli. Andate al cinema perché difficilmente vi ricapiterà di vedere sullo schermo un disastro così insensato e autoriale.