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Joker: Folie à Deux, la recensione di Roberto Recchioni

Pubblicato il 01 ottobre 2024 di Roberto Recchioni

Partiamo dalle cose facili.
Joker: Folie à Deux è il secondo capitolo di quel Joker del 2019 che ha trionfato a Venezia e poi nei botteghini di tutto il mondo. È sempre diretto da Todd Phillips, sempre scritto da Phillips e Scott Silver, sempre fotografato da Lawrence Sher, sempre montato da Jeff Groth, sempre musicato da Hildur Guðnadóttir, sempre scenografato da Mark Friedberg e sempre interpretato da Joaquin Phoenix. È un sequel duro e puro, che non solo riunisce gran parte del cast tecnico e artistico, ma che prende narrativamente le mosse dal primo film in maniera indissolubile, cioè trova il suo senso esclusivamente come proseguimento della storia che l’ha preceduto e che è raccontata nella prima pellicola. Quindi, come spettatore, devi aver visto il primo film se vuoi capire il secondo, sia per quanto riguarda gli avvenimenti e i personaggi veri e propri, sia per il senso stesso dell’intera vicenda. Gli elementi nuovi sono Stefani Joanne Angelina Germanotta (al secolo: Lady Gaga) nel ruolo di Harleen “Lee” Quinzel (la versione di Harley Quinn, reinventata in questo universo batmaniano realistico di Todd Phillips) e il fatto che il film è una sorta di musical. Dico “sorta di musical” e non “musical” vero e proprio perché, ve lo anticipo dato che so che la cosa vi sta a cuore, per quanto i personaggi della pellicola ogni tanto cantino e ballino (non troppo spesso, comunque), il film non segue le regole della grammatica dei musical e non ne porta in scena molti degli stilemi. Non ci sono grandi coreografie, per esempio, i personaggi sono (in alcuni casi) consapevoli di stare cantando e, in linea generale, il film non affida gli snodi della storia a scene di canto e ballo extradiegetiche.

Detto questo, la storia in breve (e senza spoiler): a seguito di quanto successo nel primo Joker, Arthur Fleck è stato rinchiuso nel braccio di massima sicurezza dell’Arkham Asylum, in attesa di processo. Qui, per una serie di fortunati e sfortunati eventi, conosce Harleen Quinzel, una giovane ragazza affetta da disturbi psicologici. Tra i due si sviluppa un disturbo psicotico condiviso (conosciuto anche come “Folie à Deux”) che genererà un turbine di caos.

Ora, facciamo una premessa importante: a differenza della maggioranza del pubblico e della critica (e della giuria di Venezia, che lo ha premiato con il Leone d’Oro), non ho amato per nulla il primo Joker del 2019. All’epoca lo avevo trovato, sotto il profilo registico e di scrittura, un ricalco furbetto del lavoro di Scorsese (in particolare: Taxi Driver e Re per una notte), non particolarmente ispirato, troppo carico e sopra le righe nella recitazione di Joaquin Phoenix e, soprattutto, inconsapevole di quanto stesse dicendo. Oppure, consapevole ma molto disonesto. In poche parole, proprio non riuscivo a digerire l’aver trasformato una persona con evidenti problemi come Arthur Fleck (che a parte qualche assonanza, non ha nulla a che spartire con il Joker di Batman), un individuo disturbato, un sociopatico mitomane e miserabile, che uccideva senza ragione, non solo in una vittima della società ma anche in un eroe romantico e in un paladino della giusta ribellione degli oppressi, una sorta di V di V for Vendetta ma con una maschera da clown al posto di quella di Guy Fawkes. Mi pareva una maniera facile ma poco corretta di far presa sul pubblico, evitando la sgradevolezza e sorvolando sulle implicazioni complesse e sfumate che un personaggio come quello di Fleck avrebbe dovuto suscitare (e che erano ben presenti in Travis Bickle e Rupert Pupkin, i due personaggi interpretati da Robert De Niro nei due film di Scorsese che al Joker facevano da modello). E quando il film era diventato un successo planetario e in tanti avevano preso il Joker di Phillips come un nuovo modello di antieroe, perfetto per i cosplay e i messaggi social in stile “in ogni uomo ci sono due lupi”, questa mia diffidenza e fastidio per l’operazione condotta da Phillips era ulteriormente cresciuta, fino a diventare una aperta antipatia.
Capirete quindi il mio stato d’animo negativo quando sono entrato nella sala dell’anteprima e l’ho trovata già gremita di content creator vestiti da Joker e Harley, pronti a inneggiare alla nuova coppia di eroi romantici e tanto pazzerelli.

Invece, sorprendentemente, il sequel di Joker mi è piaciuto. Quasi al punto di farmi rivalutare il primo.

Andiamo però con ordine.
Prima di tutto, la regia. Phillips ha i limiti che ha sempre avuto ma, questa volta almeno, non ricalca e non sembra una “wannabe Scorsese”. Significa che il film è ben diretto? No, ma significa che questa volta il racconto visivo nelle sue debolezze (molte) e nei suoi punti di forza (molti di meno) è di Phillips e di Phillips e basta. E secondo me questo è un grosso passo in avanti.
La pellicola ha, sostanzialmente, tre contesti: quello carcerario, quello processuale e il piano surreal-metaforico del musical. Sono tre scenari che il cinema americano conosce benissimo e che sa raccontare come forse nessun altro, ma Phillips non eccelle in nessuno dei tre, anche se, con i primi due, riesce a portare a casa un discorso quantomeno dignitoso. Con il musical, invece, si vede proprio che non è a suo agio e quando prova a declinarlo nella maniera classica (canti, balli e coreografie articolate) ottiene esiti poveri e, talvolta, sciatti. Meglio gli va quando cerca una strada diversa e più semplice, con molti meno elementi in campo e minore complessità. Non a caso, la scena migliore del film, in termini registici, è il momento intimo e da cantante crooner del Joker. Adesso, non voglio negare che avere un regista che non sa girare scene da musical in un film che, almeno in parte, vorrebbe essere un musical, è un problema e forse anche bello grosso, eppure questa goffezza si sposa abbastanza bene con lo squallore e il livore di tutta la storia e dona a questi momenti un loro fascino.

Ora però passiamo al punto chiave della faccenda: la scrittura.
E qui il film diventa qualcosa di davvero interessante, perché Joker: Folie à Deux non è altro che due ore e spiccioli di metacinema. Un sequel che riflette sulla pellicola che lo ha generato inquadrandola sotto un punto di vista critico e mettendone in discussione tutti i punti di forza. Non solo: è anche una riflessione, spietata, sul pubblico che quel primo film lo ha frainteso e, fraintendendolo, lo ha amato per le ragioni sbagliate.
In termini di scrittura, insomma, sembra davvero che Phillips e Silver si siano seduti al tavolo con la piena consapevolezza di tutti “gli sbagli” che hanno fortunosamente portato il primo Joker al successo, con l’intenzione di metterci riparo, ribaltandone i presupposti e mettendone alla berlina gli esiti.
C’è però un problema: riparare quel successo significa sabotarlo. Perché il Joker del 2019 era piaciuto a molti, esattamente per la stessa ragione per cui, pochi, lo avevano odiato. Andare a dare ragione ai pochi significa dare uno schiaffo ai molti.
E Joker: Folie à Deux è esattamente questo: uno schiaffo in faccia a chi aveva amato il primo film. Quindi, via tutta la romanticizzazione del personaggio, via il suo fascino maledetto, via il suo carisma, via le sue giustificazioni, via il mito, via la suggestione, via lo spettacolo, l’intrattenimento, il balletto da TikTok e la battuta da citare mille volte. Al posto di tutto questo, lo squallore di un ultimo degli ultimi, un assassino senza causa o ragione che non è niente altro che un poveraccio dalla vita miserabile da non trasformare, in nessun caso, in icona o modello.
E, di conseguenza, il film è anche una critica piuttosto accesa (veicolata attraverso il personaggio per nulla facile e scontato interpretato da Lady Gaga) a tutti quelli che, invece, Arthur Fleck lo hanno trasformato nel Charles Manson di turno, un’icona di oscuro fascino e carisma invece del patetico assassino che era. Non solo. Alla luce di questo secondo film, il primo acquista un valore del tutto diverso, diventando un lungo preambolo che ha lo scopo di sviare lo spettatore, facendogli credere quello che non è, per poi permettere al secondo capitolo di affondare il colpo dove fa più male e chiudere tutta la storia con una serie di anticlimax durissimi e spietati, che lasciano a bocca asciutta quelli che cercavano un finale spettacolare e appagante.
Di pari passo, procedono ugualmente sia Joaquin Phoenix (che resta nella cifra interpretativa del primo film ma passa da un approccio tutto “over” a uno tutto “under”) che Lady Gaga, che pur avendo per le mani un personaggio che potrebbe esplodere grazie ai suoi numerosi talenti, preferisce invece un’interpretazione più sobria, sgradevole a tratti, e per niente sfavillante.

Sinceramente, un autodafé simile, al cinema, su un’opera-prodotto così costosa, non l’avevo mai visto prima e non posso che riconoscere a Todd Phillips e a Scott Silver un coraggio enorme in questo splendido autosabotaggio. Oppure, mi sto illudendo e si tratta, di nuovo, di una grave mancanza di consapevolezza di quanto si sta facendo, questa volta molto meno fortunata. Onestamente però, voglio credere alla prima ipotesi e pensare che lo spirito destabilizzante della New Hollywood si sia per un momento reincarnato nello sceneggiatore di X-Men: le origini e nel regista dei tre Una notte da leoni, inducendoli in una vera folie à deux che li abbia spinti a realizzare un gesto folle, professionalmente suicida, autarchico, anarchico, provocatorio e splendidamente iconoclasta.
Questo film è come la maglietta “Kill Your Idols” con la faccia di Gesù, e io, quella maglietta, ce l’ho nell’armadio, quindi, non posso che amarlo.

Vi consiglio di vederlo?
Dipende: quanto avete amato il primo?