La parola non è mai stata indispensabile al cinema d’animazione, come la presenza umana non è certo indispensabile alla vita sulla Terra. Da Oskar Fischinger a Caroline Leaf, passando per Aleksandr Alekseev e Norman McLaren, i campioni di questa forma d’arte hanno sempre privilegiato il linguaggio visivo su quello verbale, ma lo stesso può dirsi di altri grandi animatori come Chuck Jones e Tex Avery (che pure appartengono a contesti più commerciali). Anche Flow di Gints Zilbalodis non ha bisogno della parola, in controtendenza rispetto a decenni di animazione mainstream con animali antropomorfi o comunque parlanti, specchio degli atteggiamenti umani. Il regista lettone, al secondo lungometraggio dopo Away, fa tutto l’opposto: immagina uno scenario completamente post-umano, dove gli animali sembrano infine destinati a ereditare il pianeta.
Tutto parte da una colossale inondazione, come nei miti di numerose culture da ogni angolo del globo. Un gatto nero passeggia nella foresta, quando un branco di cervi per poco non lo travolge: gli animali stanno fuggendo da una misteriosa ondata che spazza via ogni cosa. Trascinato dalla corrente, il povero felino riesce a salvarsi insieme a un cane, rimasto isolato dal suo branco. Il gatto si rifugia nella casa del suo padrone, un artista ossessionato dai gatti: sculture feline sono infatti disseminate ovunque, e la più grande di tutte – un’opera davvero monumentale – domina il panorama dalla cima di una collina. Gli umani intanto sono spariti nel nulla. Flow lascia parlare le immagini, non fornisce spiegazioni didascaliche: l’interpretazione di quanto è successo resta nelle nostre mani, ammesso che abbiamo bisogno di trovarne una. È un’estasi pre-apocalittica? Una punizione divina? Non importa, quello che conta è la sorte di chi resta. Mentre il cane ritrova i suoi amici su una zattera, il gatto sale sulla collina per sfuggire all’inondazione, ma non c’è niente da fare: il livello dell’acqua raggiunge la vetta, sommergendo persino la scultura gigante.
La salvezza del nostro piccolo eroe è una barca di legno che passa nelle vicinanze, con a bordo un serafico capibara. Il roditore è lieto di dargli asilo, e ben presto comincia a raccogliere anche altri superstiti lungo la traversata: un lemure collezionista di oggetti, un maestoso uccello segretario e i cani che avevamo incontrato all’inizio. Attorno a loro si stagliano le colossali vestigia della civiltà umana, alcune riconoscibili e altre più apertamente fantastiche, mentre le acque sfiorano la cima delle montagne. Intanto, la convivenza tra creature così diverse non è facile, ma il punto è proprio questo: se in principio il gatto è guidato da puro istinto di autoconservazione, in seguito impara a riconoscere anche le esigenze degli altri, per una solidarietà inter-specie che non ha bisogno di esprimersi attraverso una lingua comune. Zilbalodis ci ricorda così che l’empatia non è un’esclusiva umana, ma può trovare spazio in ogni essere vivente, quantomeno se propenso alla socialità. Di fatto, Flow è anche un racconto di formazione, non solo individuale ma collettivo: gli animali imparano a sostenersi vicendevolmente, quasi compiendo un salto evolutivo.
La precisa circolarità della storia rafforza proprio l’idea di una narrazione completa, dove il principio corrisponde alla fine, e l’epilogo a un nuovo inizio. Il fascino del film risiede anche in questo carattere enigmatico, poiché l’impressione di esplorare una realtà alternativa (ma tanto simile alla nostra) è fortissima. Rimuovendo gli umani dall’equazione, Zilbalodis elimina il brusio del mondo, e quel che resta è una sinfonia di suoni, versi e rumori su cui il pianeta può rifondare sé stesso. Si avverte in questo una sensibilità non banale, anche per la scelta di un gatto come personaggio principale, la cui presenza discreta ha bisogno di tempo per aprirsi al mondo. A tal proposito, gli animatori dimostrano di aver studiato i felini nei minimi dettagli: il protagonista di Flow è uno dei gatti più credibili mai visti in animazione, con tutto il campionario di abitudini, comportamenti e idiosincrasie che chiunque abbia mai avuto un gatto conosce bene. Il merito è di una tecnica sbalorditiva, quasi indefinibile per la sua qualità sfuggente ed eterea. Il disegno degli animali e degli sfondi ha una leggerezza da acquerello, ma l’acqua e la luce sono spesso fotorealistiche, pur armonizzandosi perfettamente con il resto. Al contempo, i movimenti di macchina (virtuale) sono fluidi ed eleganti, quasi volessero assecondare il “flusso” del titolo, e non mancano alcuni long take molto complessi.
L’esito è un’opera misteriosa e raffinatissima, che sembra intercettare suggestioni provenienti da fonti diverse: non solo miti archetipici e libri per l’infanzia, ma anche videogiochi indie come Journey, Sea of Solitude e ovviamente Stray. Tutto questo in un film che apre nuove strade al cinema d’animazione; pur essendo costato solo 3.5 milioni di euro (un cinquantesimo dei colossi Disney) e realizzato con Blender (un noto software open source), Flow regala un’esperienza visiva ed emotiva davvero profonda, destinata ad accompagnarci per lungo tempo. Straordinario.