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All We Imagine as Light, la recensione del film di Payal Kapadia

Pubblicato il 07 ottobre 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Niente come il cinema sa narrare il rapporto ambivalente tra l’individuo e la metropoli, quantomeno in modo così limpido. Film come Parigi, 13Arr., Past Lives e La storia del Frank e della Nina dimostrano un rinnovato interesse per la città come incubatrice di relazioni, dove i legami tra i personaggi, i loro conflitti e i loro desideri sono inscindibili dalla vita metropolitana. Anche All We Imagine as Light di Payal Kapadia rientra nel medesimo discorso, reso ancora più esplicito dall’immenso agglomerato urbano di Mumbai, capitale commerciale e d’intrattenimento dell’India: una megalopoli che corre veloce, meta di immigrazione nazionale e internazionale, dove confondersi tra la folla – si tratta della sesta città più densamente popolata al mondo – è inevitabile.

Non a caso, l’incipit del film ci immerge proprio fra gli abitanti di Mumbai, con uno stile documentaristico che mostra la propensione della regista indiana a entrare nella quotidianità della megalopoli, sua città natale. La focalizzazione si sposta però gradualmente su Prabha (Kani Kusruti), infermiera che condivide l’appartamento con una collega più giovane, Anu (Divya Prabha). Entrambe originarie del Kerala, le due donne vivono situazioni opposte: Prabha è sposata con un uomo che le è stato imposto dalla famiglia, e che ora lavora in Germania senza mai farsi sentire; Anu ha una relazione segreta con Shiaz (Hridhu Haroon), la cui famiglia è però musulmana, e non approverebbe mai il loro amore. Prabha è una persona molto generosa, copre spesso l’affitto di Anu e cerca di aiutare la cuoca Parvaty (Chhaya Kadam) a difendere la sua casa da una speculazione edilizia. La sua vita è abitudinaria, tra il lavoro in ospedale e un medico gentile che le fa la corte, il Dr. Manoj (Azees Nedumangad). Prabha però non dimentica di essere sposata, nonostante il coniuge sia sparito da più di un anno. Quando riceve dalla Germania un cuociriso nuovo di zecca, però, il pensiero di quel marito lontano torna a rimbombarle nella testa, turbando la sua routine.

La metropoli intanto rumoreggia sullo sfondo, fa capolino dalle finestre con le sue luci brillanti, e travolge Anu e Shiaz quando vanno in cerca di un posto per fare l’amore. A tratti pare quasi di vedere un film di Wong Kar-wai, seppure calato nel contesto indiano: il modo in cui le protagoniste si appoggiano mollemente alla città, con dialoghi che si sovrappongono al paesaggio e sembrano quasi monologhi interiori, non è tanto diverso. Al contempo, però, Payal Kapadia è abile a trovare una voce tutta sua, poetica e controllata, fra lieve romanticismo e sguardo lucido sulla realtà. La cineasta mette in scena un fulgido esempio di solidarietà femminile senza mai scivolare nella retorica, ma ponendolo a confronto con la durezza di un sistema iniquo, e in aperta reazione alle sue ingiustizie. “La classe è un privilegio riservato ai privilegiati” recita il paradossale slogan del progetto immobiliare che abbatterà la casa di Parvaty: è l’emblema di una società che all’antica legge delle caste aggiunge le moderne disuguaglianze del capitalismo, lasciando che si alimentino a vicenda.

La lotta di Prabha al fianco di Parvaty è impari, ma rinsalda la loro amicizia, e spinge la protagonista ad accompagnare l’amica al suo villaggio natale, insieme ad Anu. In effetti, il terzo atto di All We Imagine as Light abbandona Mumbai per mostrare a noi spettatori – e alle tre donne – uno stile di vita molto diverso, più a contatto con la terra e con la comunità locale: un luogo quasi metafisico, dove sembra che i desideri possano manifestarsi nel modo più inatteso. Questa vaga deriva fantastica porta a compimento l’atmosfera sognante del film, che nell’epilogo trascende solo in apparenza le sue radici “verosimili”. In realtà, il clima onirico di All We Imagine as Light emerge già nel caos della metropoli, soprattutto grazie al tono pacato delle protagoniste e alle musiche di Dhritiman Das. Ne risulta un’opera sfuggente, enigmatica e inclassificabile, che rielabora la condizione femminile in India senza pietismo né eccessi melodrammatici, ma scegliendo piuttosto di raccontare le vite di tre donne nell’intersezione fra quotidianità e desiderio. Un film di grande fascino, dove la solidarietà supera i confini di genere e si fa davvero universale.