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La stanza accanto, la recensione del film di Almodóvar da Venezia 81

Pubblicato il 02 settembre 2024 di Lorenzo Pedrazzi

C’è un momento in cui La stanza accanto sembra diventare un altro film. Ingrid, la scrittrice interpretata da Julianne Moore, ha appena ritrovato la vecchia amica e collega Martha (Tilda Swinton), ricoverata in un ospedale di Manhattan perché affetta da un male incurabile: le due donne non si vedono da anni, e Martha inizia a raccontarle la storia di com’è nata sua figlia Michelle, con cui non intrattiene quasi nessun rapporto. Parte quindi un flashback ambientato negli anni Settanta, dove scopriamo che Martha ha avuto la bambina da adolescente con un reduce del Vietnam, ed è qui che il nuovo lungometraggio di Pedro Almodóvar – il primo in lingua inglese – sembra imboccare una strada diversa. Ben presto, però, scopriamo che l’anima del racconto non è il passato, bensì il presente: le storie di concepimenti inattesi, di figli perduti e di relazioni interrotte – cruciali in molti film del regista spagnolo – qui restano sullo sfondo per concentrarsi sulle ossessioni del suo cinema più recente, e della fase più matura della sua carriera.

Ne La stanza accanto, basato sul romanzo Attraverso la vita di Sigrid Nunez, torna infatti il tema della malattia, ma portato alle estreme conseguenze del fine vita. Martha vuole andarsene alle proprie condizioni, quindi affitta una villa fuori New York e chiede a Ingrid se sia disposta a tenerle compagnia finché non deciderà di farla finita, con una pillola comprata sul dark web. Ingrid è sconvolta, anche perché trova che la morte sia un fenomeno incomprensibile, come ha raccontato nel suo ultimo libro; ciononostante, decide di accettare la richiesta dell’amica, informando anche un vecchio amante di entrambe (John Turturro). A convincere Ingrid è la lucidità di Martha, nelle cui parole ritroviamo la grande consapevolezza di Almodóvar. Nelle sue mani, un soggetto potenzialmente melodrammatico diviene una riflessione acutissima sull’eutanasia, i cui dialoghi rispecchiano le molte sfaccettature dell’esperienza umana.

C’è la malinconia per la fine imminente, è vero, ma non mancano nemmeno l’ironia, il paradosso, il dubbio, la meditazione cosciente sullo stato in cui versa il mondo. La stanza accanto, in effetti, è un’opera che guarda con diffidenza alle ipocrisie del presente (inevitabile la frecciatina contro le derive della cultura woke), lasciando trasparire una disillusione amareggiata e rassegnata: le parole di Turturro sull’emergenza climatica e sull’ascesa delle destre sono esemplari, in tal senso. Ma è soprattutto un film sull’amicizia femminile, che si riscopre solidale nel momento più estremo del bisogno. Come al solito, Almodóvar dimostra una grande sensibilità nel mettere a confronto i personaggi femminili, facendoli parlare a ruota libera degli argomenti più disparati, fino a pizzicare le corde più intime di entrambi. Nel medesimo contesto rientrano anche i discorsi sul sesso, ormai esclusi dalle politiche hollywoodiane (Babygirl è una felice eccezione), ma fondamentali per un cineasta del suo livello. Nel suo cinema, la sessualità è semplicemente una delle molte declinazioni della vita adulta, com’è giusto che sia, e parlarne è qualcosa di naturale.

Anche stavolta, come già in passato, Almodóvar cita alcuni dei suoi numi cinematografici (qui Le sette probabilità di Buster Keaton e The Dead – Gente di Dublino di John Huston), all’interno di una visione dell’esistenza che è sempre passionale, nonché fieramente laica. Un autore colto e onesto di cui abbiamo sempre un gran bisogno, capace di costruire inquadrature che rimandano ai dipinti di Edward Hopper – quantomai calzanti per il suo debutto americano – ma sempre con una palette cromatica vibrante. Poco importa, allora, se alcuni dialoghi suonano fin troppo espositori, anche perché la formidabile coppia di attrici recita sempre con naturalezza: l’amore del regista per i suoi personaggi è innegabile, come il suo rispetto per l’intelligenza del pubblico.