Quando il 6 gennaio 2021 il Campidoglio fu preso d’assalto, non pochi simboli del suprematismo bianco apparvero tra i dimostranti. Tra questi, molti facevano riferimento a The Order, un gruppo terroristico suprematista che insanguinò il Nord-Ovest nei primi anni ’80. Ed è proprio di quel fenomeno che ci parla The Order di Justin Kurzel, tratto da “The Silent Brotherhood” di Kevin Flynn e Gary Gerhardt. Presentato in concorso a Venezia 2024, The Order non è un capolavoro, ma è un film diretto e senza fronzoli.
Idaho, 1983. Una serie di rapine violente attira l’attenzione dell’FBI, che invia l’agente veterano Terry Husk (Jude Law) a indagare sul fenomeno, che riflette una realtà particolarmente violenta in quella fetta di America bianca, depressa, religiosa e spesso razzista, dove il suprematismo bianco affonda le sue radici più profonde da molto tempo. Se fino a quel momento non si erano verificati episodi violenti, tutto cambia quando Bob Matthews (Nicholas Hoult) si stacca dalla Fratellanza Ariana e fonda The Order, un’organizzazione terroristica che si ispira a “The Turner Diaries”, un romanzo eversivo e fascista su come creare una rivoluzione per riportare il Potere Bianco ai vertici. Presentata così, potrebbe sembrare una piccola setta di svitati, ma Matthews ha leadership, carisma e una strategia; in breve, raduna un nucleo armato che si macchierà di attentati, uccisioni e rapine per finanziare il proprio folle progetto.
The Order arriva a Venezia 2024 in un momento particolare della vita politica e sociale americana. La frattura generata dalla polarizzazione politica non è mai stata così netta, e il ricordo dell’assalto al Campidoglio del gennaio 2021 è ancora fresco come trauma collettivo. La campagna elettorale ha riportato a galla quel sistema di odio razziale e religioso che domina ogni minuto di questo film, mentre vediamo realizzarsi davanti ai nostri occhi il concetto di comunità chiusa nel senso più assoluto, seguendo la caccia di Husk a Matthews. Jude Law dona al suo personaggio il carisma del lupo solitario, un uomo senza più affetti ma solo con il lavoro. Hoult, invece, dipinge il classico manipolatore narcisista, ambizioso smodato e mediocre come tanti ce ne sono stati in innumerevoli terrorismi in ogni paese. Ma è la visione di sé stessi come “veri americani” che rende i suprematisti qualcosa di diverso, con una concezione della vita e della società come un assedio continuo, una sorta di prolungamento del sogno americano nella sua accezione più legata al passato dei padri fondatori.
The Order è un film che in più di una sequenza strizza l’occhio a Friedkin, a Cimino, a un certo cinema crime degli anni ’70 e ’80, ma sa di non avere il respiro e la consistenza per reggere quel confronto; quindi, non commette l’errore di fare il passo più lungo della gamba. Manca forse un po’ di caratterizzazione per i personaggi di contorno, in particolare quelli di Tye Sheridan, Alison Oliver e Marc Maron, e la seconda parte non raggiunge un climax, un apice decisivo come più volte pare promettere, lasciando forse in parte lo spettatore deluso. I personaggi appaiono, in ultima analisi, strumenti di una trama in cui il western urbano è dietro l’angolo, dove la fotografia di Adam Arkapaw sa come valorizzare ogni frammento di questa natura selvaggia, ignara dell’umanità folle che si punta un fucile addosso basandosi su ideali privi di un minimo di consistenza. Manca un’analisi approfondita a livello politico del suprematismo, ma non è neppure l’obiettivo di Kurzel, che va dritto al punto, senza variazioni o percorsi paralleli, senza dubbi o esitazioni.
Jude Law è molto convincente, ma l’impressione è che forse la sceneggiatura di Zach Baylin non gli permetta di spiccare definitivamente il volo, così come a Hoult. The Order però è anche un film che ridà realismo all’azione, alla mediocrità del male nato dalla Guerra di Secessione, sopravvissuto attraverso ogni epoca, presente e decisivo ancora oggi per un’intera fetta d’America, incapace di liberarsene perché l’identità, ci fa capire The Order, si basa sull’esclusione dell’esterno. Manca la sensazione di una vittoria finale, per il semplice motivo che il fenomeno non è stato sconfitto o arrestato, si è solo nascosto per poi tornare fuori nel XXI secolo. Forse non un film da concorso, siamo onesti, ma comunque un film che riporta il concetto di realismo dentro il crime, che non si fa problemi ad attaccare frontalmente un certo fronte politico, senza distinzioni, lo stesso che magari potrebbe raccogliere di nuovo a novembre le redini del paese.