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The Brutalist, la recensione del film di Brady Corbet da Venezia 81

Pubblicato il 01 settembre 2024 di Lorenzo Pedrazzi

S’intitola The Brutalist, ma di architettura brutalista ce n’è ben poca nell’ambizioso film di Brady Corbet. È però significativo che la figura dell’architetto, professione visionaria che immagina il futuro con una commistione di arte e ingegneria, continui a suscitare grande interesse in ambito narrativo: pensiamo a La fonte meravigliosa di Ayn Rand o al bellissimo Asterios Polyp di David Mazzucchelli, i cui autori si rivedono chiaramente negli architetti protagonisti, e attraverso di loro veicolano le proprie visioni del mondo. Non c’è quindi da stupirsi che Corbet e la co-sceneggiatrice Mona Fastvold (con cui aveva scritto anche L’infanzia di un leader e Vox Lux) traggano ispirazione dalla celebre autrice russo-americana – molto amata dalla destra libertaria in quanto teorica dell’oggettivismo – e dal suo “eroe” Howard Roark. Al contempo, però, The Brutalist s’immerge molto più a fondo nei drammi del Novecento, consapevole di quanto il background storico sia inscindibile dalla caratterizzazione di László Tóth, il protagonista interpretato da Adrien Brody.

È il 1947, e László lascia la natia Budapest per emigrare negli Stati Uniti d’America, con la speranza che la moglie Erzsébet (Felicity Jones) e la nipote Zsofia (Raffey Cassidy) possano raggiungerlo presto. Architetto ebreo di grande fama tra le due guerre, László arriva a New York City da perfetto sconosciuto, e si guadagna da vivere con lavori di fatica. Il cugino Attila (Alessandro Nivola) gli offre un impiego in Pennsylvania, ma è l’incontro con il ricco Harrison Lee Van Buren (Guy Pearce) a cambiare i suoi orizzonti: Van Buren è infatti un suo grande estimatore, e gli offre l’opportunità di realizzare un centro polifunzionale in onore della madre defunta, comprensivo di biblioteca, palestra, auditorium e chiesa. László concepisce un massiccio edificio in cemento armato che spiazza lo stesso Van Buren e i suoi collaboratori, abituati allo stile modernista che l’architetto utilizzava in Ungheria e Germania. In effetti, le opere che vediamo in foto sono figlie del Movimento Moderno, e László ha studiato presso la scuola del Bauhaus a Dessau. Ora invece la scelta del cemento armato a vista, con linee funzionali e forme rigorose, dimostra come László desideri superare il modernismo in favore di un’architettura nuova, più vicina al brutalismo del titolo. Eppure, come accennato all’inizio, l’architettura brutalista è quasi del tutto assente dal film.

Se si esclude il discutibile “spiegone” finale, l’arte di László è più teorica che concreta in The Brutalist; quello che conta è infatti il suo impulso innovativo, la sua personalità individualista (proprio come il sopracitato Roark de La fonte meravigliosa) in lotta contro le pressioni esterne. L’architetto è emblema di quelle grandi personalità che hanno plasmato il nostro immaginario nel Secondo Dopoguerra, disegnando spazi ed edifici che fanno parte degli attuali contesti urbani. Corbet ci ricorda però che una figura tanto eccezionale non viene dal nulla: ha affrontato le persecuzioni di due diversi regimi, è sopravvissuta all’Olocausto e si è dovuta adattare a un mondo nuovo, dove peraltro ha trovato una forma diversa di oppressione, più sottile. Non a caso, la lunga epopea di The Brutalist mette a nudo la vera faccia del capitalismo, ben rappresentata dalla doppiezza di Van Buren. Il potere finanzia l’arte per ripulire la sua immagine, ma è anche lesto a divorarla, a trattarla come una proprietà da sfruttare: uno stupro metaforico e letterale, purtroppo.

Grazie alla splendida fotografia di Lol Crawley – ruvida e graffiata come una pellicola vecchia di decenni – Corbet sottolinea quanto sia malsano fare affari con la classe dominante, e scendere a patti con le sue risorse economiche. Ma nel film c’è spazio anche per momenti di abbacinante bellezza, come il prologo sull’arrivo a New York o il segmento notturno a Carrara: sono sequenze cariche di tensione e mistero, dove il regista americano dà prova di saper muovere la macchina da presa e adattare il formato dello schermo a esigenze diverse.

Giunto al suo terzo lungometraggio, insomma, Corbet centra un film davvero monumentale, non privo di arroganza (la struttura operistica, con l’ouverture e persino l’intervallo “forzato”, è abbastanza gratuita) o di limiti narrativi (l’epilogo frettoloso e didascalico), ma dominato da intuizioni memorabili: in primis l’atmosfera ipnotica e trascinante, la costruzione delle inquadrature, la performance strepitosa di Adrien Brody, e soprattutto l’impressione di assistere a uno sforzo eccezionale, nato dall’intersezione tra la New Hollywood e il cinema indie postmoderno. Un’opera fascinosa e potente, destinata a guadagnarsi il suo posto fra le grandi imprese di questo decennio.