C’è una strana coerenza in Queer, anche se forse non è immediatamente percepibile. Si presenta nella forma di un particolare languore, che trapela sia dagli sguardi bramosi di William Lee – il protagonista interpretato da Daniel Craig – sia dallo stile con cui Luca Guadagnino e lo scenografo Stefano Baisi ricostruiscono il Messico a Cinecittà: l’idea, resa più esplicita nel finale, è che l’autore William S. Burroughs e il suo “doppio” ripercorrano gli eventi attraverso il filtro della memoria, con una commistione di terrore e nostalgia. D’altra parte, lo stesso Burroughs ha descritto il suo passato come “un fiume malvagio”, e il film di Guadagnino scorre come un flusso seducente ma distruttivo.
L’omonimo romanzo dello scrittore americano è autobiografico, alla stregua di tutta la sua opera. Siamo nel 1950, e Lee è espatriato a Città del Messico per sfuggire alle leggi statunitensi sul consumo di oppiacei. Le sue giornate trascorrono fra superalcolici e rapporti occasionali con ragazzi del posto, almeno finché non incontra Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane studente appena arrivato in città. Lee non è sicuro dell’omosessualità di Eugene, ma ne è fortemente attratto, e cerca in lui una connessione più intima rispetto al solito. Finisce quindi per coinvolgerlo nella ricerca dell’ayahuasca, nota anche come yage, una liana dell’Amazzonia che si crede favorisca la telepatia, e che i Sovietici starebbero usando per degli esperimenti sul controllo mentale.
Suddiviso in tre capitoli più un epilogo, Queer dimostra ancora una volta come Guadagnino sappia mettersi al servizio dei soggetti più eterogenei, prendendo strade diverse a seconda della materia. L’adattamento di Justin Kuritzkes – già sceneggiatore di Challengers – gli permette di riprodurre il mondo di Burroughs attraverso uno sguardo febbricitante, lo stesso che vediamo negli occhi dello strepitoso Daniel Craig: il risultato è un viaggio ossessivo, spinto dal desiderio e dai brividi dell’astinenza, dove il Lee scrittore sembra scomparire del tutto (dei suoi scritti sappiamo poco o niente) in favore del Lee alcolizzato, drogato, lussurioso ma anche avventuriero, pronto a esplorare l’ignoto per superare i confini della conoscenza. Un uomo dai raffinati gusti letterari – probabilmente gli stessi di Burroughs – che legge Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, Appuntamento a Samarra di John O’Hara e persino raccolte di fantascienza, dando prova di conoscere bene tanto l’astrazione quanto l’autodistruzione.
Così, quello che inizialmente sembra un cammino impervio alla ricerca del piacere, gradualmente si trasforma in un’esperienza lisergica, a metà fra l’incubo e il trip allucinogeno. Queer rievoca così le ambigue circostanze che portarono alla morte di Joan Vollmer, seconda moglie di Burroughs, per poi sfociare in una celebrazione dell’amore come innesto sottocutaneo. Se tutto questo suona frammentario, è perché Guadagnino e Kuritzkes costellano il film di momenti apparentemente sconnessi: una scelta quantomeno calzante, trattandosi dello scrittore che ha consacrato la tecnica del cut-up in letteratura. Ma Guadagnino costruisce soprattutto un’immersione nella memoria, per tornare al discorso iniziale. Le scenografie di Baisi, come le rare inquadrature panoramiche di Città del Messico o del Sud America, hanno la qualità del ricordo nostalgico più che della riproduzione verosimile: sono immagini filtrate dalla memoria, che scalda i colori e sfuma i contorni.
Questo permette inoltre al regista di confrontarsi con alcuni dei suoi “numi” cinematografici, compresi Powell e Pressburger, due maestri abituati a ricostruire tutto in studio; è anche per questo che Queer conserva una patina molto peculiare, più vicina al sogno che alla realtà, proprio come certe produzioni classiche. Ciò non toglie che sia pure un film molto carnale, fatto di sesso e fluidi corporei, ma la deriva in territori allucinati rispecchia moltissimo l’immagine pubblica di Burroughs. Forse l’adattamento non riesce sempre a conciliare queste due anime contrapposte: da una parte quella materica del corpo, e dall’altra quella evanescente (o “disincarnata”, per usare un’espressione ricorrente) delle visioni onirico-lisergiche, che in registi come David Cronenberg risultano integrate meglio fra loro. Nella trasposizione di Guadagnino ritroviamo però l’impulso a esplorare un mondo sovrasensibile, proprio come avrebbe fatto Burroughs, e già questo non è poco.