Non poteva mancare un po’ di vero crime in questa Venezia 2024. King Ivory, scritto e diretto da John Swab, è un robusto narco movie che ci illumina sulle ultime novità riguardanti il traffico internazionale, in particolare per ciò che riguarda lo stato dell’Oklahoma, Tulsa per essere precisi, guidandoci in un’odissea a tinte forti a cui però manca lo step decisivo per essere un film memorabile.
King Ivory è un film dai molti volti e dalle molte sottotrame, tutte unite nel parlarci di quanto eroina, cocaina e compagnia oggi siano state soppiantate da un nuovo mostro: il fentanyl. Al contrario dell’era dei Cocaine Cowboys, ora ci sono solo due cartelli messicani; il resto del territorio USA è in pasto a una miriade di gang a divisione razziale, tutte impegnate a farsi fuori a vicenda per il territorio e lo spaccio. Ramon Gaza (Michael Mando) è uno dei boss emergenti dello scenario messicano, cerca di diventare il nuovo fornitore e produttore di fentanyl a Tulsa, per allargarsi in tutto lo Stato. Nella partita, però, ci sono anche la mala irlandese di George “Smiley” Greene (Ben Foster) e Holt Lightfeather (Graham Greene), il padrino delle gang dei nativi. Sulle loro tracce c’è il detective delle narcotiche Layne West (James Badge Dale), che deve vedersela anche con il figlio Jack (Jasper Jones), adolescente turbolento ormai assediato dalla tossicodipendenza.
Come nei più recenti esempi del genere, anche King Ivory è un film armato di una regia molto dinamica, con primi e primissimi piani, una fotografia sporca e spesso sovraesposta di Will Stone che amplifica il clima soffocante dell’Oklahoma, da sempre discarica umana degli Stati Uniti. I protagonisti sono sempre trasandati, sudati, avvolti dal grigiore di una città dove il narcotraffico ormai coinvolge ogni minoranza e ogni branca arretrata della società. Con una trama accelerata al massimo, King Ivory cerca come può di connettersi a un capolavoro del genere come fu Traffic, con la sua visione globale del problema, il connettersi all’alto e al basso, il mostrarci i diversi livelli e le diverse conseguenze, i vari protagonisti di questa nuova ondata che sta assediando la generazione Z, così come fece con le altre generazioni. Anche loro sono presenti, quasi a tramandare ai posteri il loro bagaglio di amoralità, violenza e degrado.
King Ivory è stato creato basandosi su profonde indagini del fenomeno, con interviste e ricerche, tanto che persino diverse comparsate o ruoli minori sono affidati a chi da quell’ambiente ci è nato e magari ci è pure tornato nel frattempo. Il tutto strizza anche l’occhio al Gomorra di Matteo Garrone, c’è la stessa volontà di creare un’operazione verità, a cui però manca la convinzione ultima di andare fino in fondo. L’errore più grave commesso da Swab è quello di cercare di infilare lezioni morali in un film che di morale in realtà non dovrebbe avere nulla, ma soprattutto di farlo nel modo sbagliato. Discorsi, buone parabole, lacrime di pentimento e tutto il resto cozzano con l’innegabile abilità con cui riesce a farci comprendere questo ecosistema, cosa che lo differenzia da ciò che sono state in passato le altre organizzazioni e le altre ere del narcotraffico.
La scrittura qualche volta esagera nello spiegare piuttosto che nel mostrare, ma detto questo, alla fin fine, King Ivory è comunque un film che, grazie a Foster, Dale e un glaciale Greene, colpisce il bersaglio grosso lo stesso. La sensazione finale è ovviamente di una guerra infinita e che non si può vincere, soprattutto una guerra in cui le minoranze trovano la possibilità di riscatto, oltre che di sopravvivenza in senso generale. Le scene d’azione sono interessanti anche se già viste, il finale prima delude, poi invece riscatta il tutto con un monologo di Greene che lascia il segno.
Non ci sono vincitori e vinti, a parte naturalmente i giovani, le nuove generazioni, qui oggettivamente ben rappresentate nei segmenti in cui il tutto diventa anche un film di formazione difficile, sulla distanza generazionale. Per quanto un film minore, King Ivory è però anche un film pieno di energia, con personaggi stilizzati ma efficaci, con la capacità di farci capire che cambiano nomi, attori, sigle, sostanze, ma il vecchio gioco del mondo dei narcos rimane bene o male lo stesso.