Beginning, primo lungometraggio di Dea Kulumbegashvili, ha vinto tutti i premi principali al Festival di San Sebastián nel 2020, quando il presidente di giuria era Luca Guadagnino: la regista georgiana di origine osseta ha evidentemente impressionato l’autore di Chiamami col tuo nome, che figura tra i produttori del suo secondo film, April, presentato in concorso alla 81. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il rapporto conflittuale con la maternità, già accennato nel suo esordio, stavolta guadagna una posizione ancora più centrale. La protagonista è Nina (Ia Sukhitashvili), ginecologa finita sotto inchiesta dopo la morte di un neonato durante il parto. La donna, ombrosa e solitaria, non ha legami personali significativi, ma fa di tutto per aiutare le sue pazienti, compreso praticare aborti clandestini nei piccoli centri della Georgia. Tra l’accusa di negligenza e la sua attività illegale, Nina rischia moltissimo; e quando la vediamo guidare in aperta campagna per raggiungere un’adolescente sordomuta rimasta incinta, capiamo che il suo lavoro è proprio una missione. Lungo la strada, offre prestazioni sessuali a uno sconosciuto per compensare la solitudine, ma l’uomo reagisce con violenza alla sua richiesta di sesso orale. Intanto, mentre l’indagine dell’ospedale prosegue, la natura si scatena furibonda sui campi incolti, i temporali gonfiano i fiumi e lampi sinistri illuminano le nuvole in cielo. Una figura misteriosa e deforme, protagonista del memorabile incipit, ricorre più volte in questo contesto: è una sorta di donna con la pelle piagata e flaccida, senza tratti fisionomici sul volto anonimo; pare quasi un feto di dimensioni abnormi, o forse è solo l’anima fratturata di Nina che cerca conforto.
Come si può intuire, April sceglie una narrazione alquanto rarefatta, dove gli inserti naturali e metafisici (la creatura esiste davvero o solo nell’interiorità di Nina?) frammentano la trama in una catena di quadri distinti. Con un claustrofobico rapporto d’aspetto 1,33:1, Dea Kulumbegashvili inscatola la protagonista e il mondo circostante in long take ossessivi, talvolta a camera fissa, dove l’azione – il personaggio che parla o agisce – spesso si trova fuori dall’inquadratura. Il risultato è pieno di inquietudine, anche perché ogni interazione umana richiede molto tempo per svilupparsi, come se i dialoganti fossero in una perenne condizione di straniamento, distaccati dalla realtà e trincerati in loro stessi. Nina sembra chiusa in una prigione autoinflitta: la sua lotta contro un sistema opprimente (in Georgia l’interruzione volontaria di gravidanza è legale, ma lei si occupa di donne che devono abortire di nascosto dalle famiglie) la rende apatica, incapace di stabilire legami duraturi. Il ritmo contemplativo del film è dovuto anche a questo.
I piani fissi si alternano però a sequenze camera a spalla, in cui l’occhio della regista esplora la notte come se fosse un personaggio del film. Il clima tutt’intorno si fa sempre più tetro, ma Kulumbegashvili non si ferma di fronte a nulla: persino le scene in sala operatoria (come il parto all’inizio del film) sono inquadrati senza censure, mostrandoci la realtà del corpo nella sua materia originaria, carne, sangue e fluidi corporei. Uno sguardo indiscreto, il suo, che forse ha ancora bisogno di affinarsi del tutto, di trovare una coerenza interna che renda l’opera più armonica. Al contempo, però, Kulumbegashvili si rivela un’autrice coraggiosa e riflessiva, disposta a mettere in scena un racconto enigmatico che sia specchio della sua visione personale, come pure degli aspetti più criptici dell’esistenza. I tre piani del racconto – umano, naturale e metafisico – si alternano senza spiegazioni, in parte dialogando e in parte ignorandosi, ma sempre con il fascino disturbante di un mistero da svelare.