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2073 ha ragione, ma è anche molto ingenuo

Pubblicato il 03 settembre 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Ogni epoca ha i suoi millenarismi, ma non c’è dubbio che il presente veda una concentrazione inusitata di segnali preoccupanti. Se n’è accorto anche Asif Kapadia, apprezzato regista di Senna e Amy, che stavolta opta per una forma narrativa ibrida: 2073 è infatti un documentario mascherato da film di fantascienza, nel senso che immagina un futuro distopico e post-apocalittico a partire da una disamina critica dei nostri tempi, unendo filmati reali, interviste e ricostruzioni con attori.

A metterci in guardia dal futuro è Ghost (Samantha Morton), abitante di Neo San Francisco – la “capitale delle Americhe”, come recita una didascalia – nel 2073. Sono passati 37 anni dall’Evento, un cataclisma che ha spazzato via una parte della popolazione mondiale, e gli Stati Uniti sono diventati una dittatura totalitaria, emanazione del capitalismo della sorveglianza: droni di vario genere pattugliano le strade, i sistemi di riconoscimento facciale tengono a bada profughi e dissidenti politici, mentre i privilegiati occupano un grattacielo che supera le nuvole. Ghost, insieme ad altri superstiti, vive invece tra le rovine della città, ma è consapevole che prima o poi le autorità cattureranno anche lei.

L’espediente diegetico è un contatore che riavvolge il tempo, dal 2073 agli anni Novanta e Duemila, toccando le varie crisi di fine e inizio millennio. Kapadia mette così in luce la sinistra transizione dal trionfo delle democrazie (come accadde subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica) al ritorno dei governi delle élite, caratteristica degli ultimi anni. In effetti, il primo segnale d’allarme è proprio l’ascesa dell’estrema destra: pur citando en passant i casi europei di Ungheria e Italia, il film si concentra soprattutto sulle Filippine di Duterte, sull’India di Modi e sul clamore suscitato dalla Brexit, guidata dal reazionario Nigel Farage. C’è spazio però anche per l’abuso dell’intelligenza artificiale e dei sistemi di sorveglianza (con la persecuzione degli Uiguri in Cina), per lo strapotere dei magnati della Silicon Valley e per i rischi legati al surriscaldamento globale: in altre parole, Kapadia cita le più grandi minacce del nostro presente, ipotizzandone le conseguenze attraverso l’immaginario distopico.

Tutte le sue preoccupazioni sono sacrosante, e il film è indubbiamente animato da un forte spirito progressista che ha a cuore il benessere del 99% della popolazione mondiale (contrapposta all’1% dell’élite finanziaria). Il punto, se mai, è che 2073 non chiarisce i legami tra i problemi sopracitati, che pure sono tutti connessi gli uni agli altri: la sceneggiatura di Kapadia e Tony Grisoni si limita infatti ad accumulare una serie di denunce politico-sociali, senza però approfondirne nemmeno una. Se altri documentari “ammonitori” come Una scomoda verità e The Social Dilemma hanno quantomeno il buon senso di focalizzarsi su una singola questione, il film di Kapadia compatta almeno quattro temi globali in 83 minuti, con l’aggiunta dei segmenti ambientati nel futuro: un po’ troppo, considerando la delicatezza e la rilevanza degli argomenti.

Le parole di giornaliste e attivisti che lottano contro sistemi autoritari sono la parte più preziosa dell’opera, ma troppe considerazioni suonano generiche, più vicine al contenuto di un thread di Twitter X che a un documentario così ambizioso (il ruolo dei social network nell’ascesa dell’estrema destra, ad esempio, non può essere liquidato in una singola frase sommaria). Il messaggio di Ghost dal futuro ci sprona a fare qualcosa, eppure il film si limita a stilare un bigino di problemi contemporanei, senza offrire alcun nuovo contributo al dibattito, né un’idea concreta di azione. L’esito finale, insomma, è troppo irrisolto per convincere gli scettici, e troppo superficiale per arricchire il pubblico già informato.