Cinema roberto recchioni Recensioni
La fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta sono un periodo strano, di grandi cambiamenti e inversioni di rotta per il mondo occidentale, sia in termini politici e sociali che artistici.
Nel 1989 cade il muro di Berlino e trascina con sé l’Unione Sovietica, la logica delle due superpotenze uguali e contrapposte e tutto quello che questa logica ha alimentato: il reaganismo, l’edonismo, lo yuppismo e tanti altri “ismi” similari iniziano a mostrare segni di cedimento. Comincia a emergere un nuovo sentire, dove i fasti dell’hard rock machista vengono rimpiazzati dalla sensibile depressione del grunge, dove gli eroi granitici e serissimi vengono rapidamente sostituiti da una galleria di nuovi protagonisti fallibili e dove i colorati supereroi con le mutande sopra i pantaloni di Marvel e DC vengono insidiati nel loro ruolo egemone da una nuova generazione di eroi indipendenti, protagonisti di opere spesso in bianco e nero, caratterizzate da tematiche adulte, molto drammatiche, spesso violentissime e senza speranza.
Tra questi, Eric Draven, il protagonista de Il Corvo, una miniserie a fumetti pubblicata dalla Caliber Press nel 1989, scritta e disegnata da James O’Barr, che trova un successo anomalo e insperato sin da subito, diventando uno dei primi grandi fenomeni culturali e commerciali del fumetto indipendente americano.
Il Corvo nasce in circostanze anomale e da un autore anomalo, un orfano cresciuto negli istituti di assistenza, entrato nei Marines a 18 anni e mandato in Germania, dove da disegnatore autodidatta incappa nei manuali di addestramento per l’esercito americano disegnati da un colosso del fumetto, Will Eisner, e se ne innamora. A quel punto, O’Barr segue la strada del suo maestro spirituale, diventando anch’egli un illustratore di quei manuali e rifacendosi al suo stile per illustrarli. Questo lavoro gli fa capire che attraverso il fumetto può trovare una valvola per esprimere quello che ha dentro e, in particolare, affrontare il lutto per la sua fidanzata da poco scomparsa, uccisa dall’autista di un camion ubriaco.
O’Barr inizia quindi un’opera senza alcun condizionamento del sistema: scrive e disegna Il Corvo per sé, senza alcuna idea di pubblicazione e non seguendo alcuna regola convenzionale. Estromesso dall’esercito, O’Barr torna a Detroit dove continua a disegnare e porta avanti la sua opera. In quel periodo incontra Gary Reed, un ragazzo con un’idea rivoluzionaria per il fumetto americano: creare una casa editrice che pubblichi opere non rivolte prettamente a un pubblico di ragazzini, ma di adulti, opere mature, che possano fare a meno dei colori e che presentino storie, protagonisti e tematiche diverse da quelle stampate dalle major. Reed non è solo in quel periodo; tante sono le nuove realtà nate nel sottobosco delle piccole manifestazioni che ci stanno provando, ma a differenza degli altri, lui ha due qualità: un piano economico possibile e sostenibile in testa e il fiuto per capire quali nuovi autori hanno qualcosa da dire. Tra questi, James O’Barr. Il Corvo esce per la nuova casa editrice di Reed nel 1989 e, grazie alla forza viscerale dell’opera e ai numerosi riferimenti musicali e poetici che contiene, diventa subito un fumetto con un forte seguito nel mondo dell’underground. Le vendite sono buone (ancora non straordinarie come diventeranno poi, ma comunque significative) e O’Barr viene avvicinato dalla band dei Trust Obey (prodotta da Trent Reznor dei Nine Inch Nails) per realizzare un album che faccia da colonna sonora al suo fumetto. Con la pubblicazione del disco, esce anche la prima raccolta in volume de Il Corvo, che solidifica il suo status di opera di culto e inizia ad attirare l’attenzione di Hollywood, che in quel periodo ha scoperto i fumetti indipendenti e sta comprando opzioni a destra e a manca. Seguirà una strana stagione di cinecomic tratti da opere bizzarre (dal Faust di Brian Yuzna, tratto dall’omonimo, violentissimo fumetto di Tim Vigil, a Mystery Men con Ben Stiller, tratto dal fumetto Flaming Carrot di Bob Burden, senza dimenticare la serie a cartoni animati per bambini delle Teenage Mutant Ninja Turtles, tratta dagli oscurissimi fumetti di Eastman e Laird), che mai avrebbero avuto la speranza di vedersi portati sul grande o piccolo schermo se non in quel periodo di grande confusione e fermento.
Il film dell’opera di O’Barr finisce nelle mani di Edward Pressman, un produttore nato nel cinema indipendente ma che ha saputo portare quell’approccio nel contesto mainstream, ottenendo enormi successi. Tra i suoi film figurano opere come Wall Street, Talk Radio e Il cattivo tenente, ma soprattutto è il produttore di una delle opere rock più amate, Il fantasma del palcoscenico di Brian De Palma, che con Il Corvo di O’Barr ha più di un punto in comune. La produzione è piccola ma non minuscola (attorno ai dieci milioni di dollari di budget stanziati inizialmente), il regista è praticamente un esordiente (Alex Proyas) ma Pressman ha un certo occhio per il talento e non ci vede male neanche in questo caso. Per il protagonista, vengono vagliati i nomi di River Phoenix e Christian Slater, entrambi caratteri difficili, pieni di problemi di vario tipo (di droga, in particolare) e, soprattutto, costosi perché sulla cresta dell’onda. Alla fine si sceglie un nome ritenuto di serie B: Brandon Lee. Lee è il figlio di Bruce Lee e questa è la sola ragione per cui è riuscito a entrare nel mondo del cinema, che lo coinvolge in pellicole di arti marziali (nonostante lui non le pratichi) per affiancare la star action di turno. Non sembra un attore che possa fare la fortuna del film in nessuna maniera e non ha neanche la fisicità giusta. O’Barr si lamenta molto della scelta, poi conosce Lee, scopre quanto è determinato e quanto ami la sua opera, e i due diventano amici.
Brandon Lee perde venti chili per diventare Eric Draven e fa mesi di allenamento intensivo per realizzare (almeno in parte) i suoi stunt. Iniziano le riprese e tutto procede liscio e semplice fino al fatale giorno in cui, per una stupida disattenzione sul set, Brandon Lee resta ucciso da un colpo di un’arma da fuoco che doveva essere a salve ma che non lo era propriamente. La notizia della scomparsa del giovane attore ha immediatamente un’eco enorme, perché si sposa con le mille leggende (tutte infondate, ovviamente) sulla morte del padre, morto anche lui piuttosto giovane e in circostanze mai pienamente chiarite. La fantasia del pubblico si accende e attorno a un film che, probabilmente, si sarebbero filati in pochi, si sviluppa un interesse morboso, mentre O’Barr rimane devastato da quella morte che riecheggia quella della sua fidanzata e si convince in qualche maniera che la sua opera sia maledetta, arrivando a pentirsi di averla realizzata. Pressman, che è un cinico uomo di cinema, capisce l’opportunità e rilancia: fa completare il film con l’ausilio di tecnologie digitali all’avanguardia e, soprattutto, investe molto denaro per una colonna sonora pazzesca. Il film viene finalmente impacchettato e raggiunge le sale, diventando un ottimo successo commerciale e di critica e un film maledetto di culto. Il fumetto di O’Barr viene ristampato negli USA e ottiene edizioni estere in tutto il mondo, finendo per vendere un milione di copie negli USA e quasi altrettante in molti altri stati (tra cui l’Italia).
Il resto è routine della Hollywood di quegli anni. Vengono messi in cantiere dei sequel (tre in totale che vanno dal mediocre all’orribile) e una serie televisiva (tremenda), prodotti realizzati solamente per spolpare il successo dell’opera originale fino all’osso.
Nel frattempo, vengono realizzati romanzi e nuovi fumetti (alcuni con la collaborazione dello stesso O’Barr, che comunque non tornerà mai a ripetersi allo stesso livello dell’opera originale), ma lentamente il franchise del Corvo inizia a sparire dalla coscienza collettiva.
È tempo di farne un reboot, quindi, perché sia mai detto che venga lasciato a languire un prodotto che, un tempo, ha avuto successo. Ci provano un po’ tutti, da Rob Zombie a Nick Cave, da Stephen Norrington a Juan Carlos Fresnadillo. Per il ruolo del protagonista, si fanno i nomi più disparati: Bradley Cooper, Jason Momoa, Tom Hiddleston, Luke Evans. James O’Barr è coinvolto più volte in ruoli diversi, da quello di sceneggiatore a quello di consulente, e si esprime, a seconda del progetto, in modi diversi, ma, in linea generale, ribadisce sempre la stessa cosa: il nuovo film non sarà un remake di quello di Proyas, ma un nuovo adattamento del suo fumetto.
Alla fine, forse per non farsi scadere l’opzione che aveva in mano, Pressman mette in piedi un film molto meno ambizioso dei tanti prospettati: alla regia, un solido mestierante, Rupert Sanders, e nel ruolo del protagonista un giovane lanciato ma che ancora non ce l’ha esattamente fatta: Bill Skarsgård. Tutto il progetto nasce da un’idea sbagliata: usare una IP cara ai Boomers, alla Generazione X e ai Millennials, ma interpretarla secondo i gusti, la sensibilità, l’estetica e il sentire della Gen Z, con una spolverata da origin story in stile MCU e la violenza di John Wick. L’idea è quella di realizzare un prodotto che da una parte abbia una forte visibilità grazie al suo valore nostalgico ma che, dall’altra parte, cerchi di acchiappare le nuove generazioni, il tutto ignorando i segnali del mercato che iniziano a raccontare che la Gen Z al cinema ci va poco e rifiuta le opere che cercano di blandirla in maniera plateale, che Boomers, Gen X e Millennials al cinema ci vanno ancora, ma che loro, invece, vogliono essere blanditi e rispettati. In sostanza, mentre un Top Gun: Maverick, fedele alla formula originale in ogni dettaglio, azzecca tutto e viene amato dalle generazioni a cui principalmente si rivolge, il nuovo The Crow viene odiato sin dalla prima immagine resa pubblica, con quel protagonista che sembra uscito da un video di musica emo-trap. Non aiuta poi il fatto che Proyas, il regista del primo adattamento dell’opera di O’Barr, soffi sul fuoco parlando di mancanza di rispetto per Brandon Lee (che, intanto, nella coscienza collettiva è diventato una specie di santo intoccabile) e che lo stesso Bill Skarsgård, capita la mala parata, inizi a criticare il film di cui è protagonista ancora prima della sua uscita in sala (la stessa mossa fatta dal cast di Madame Web). Insomma, un disastro annunciato che, in termini di botteghino, puntualmente si realizza.
Ma il film è davvero così brutto?
Se lo chiedete a me, no.
È un discreto film action di serie B, con un livello molto alto di violenza e di splatteraggine, con un protagonista dannatamente figo, una più che discreta fotografia, un buon montaggio, una bella colonna sonora e una lunga, insistita scena d’azione di altissimo livello. Mi è piaciuto, per dire, più di tanti cloni di John Wick (e anche più di alcuni sequel di John Wick stesso) e non ho una ragione al mondo per odiarlo. Anzi, credo che sia un film piuttosto coraggioso in molte scelte (una su tutte, quelle che riguardano la violenza portata molto bene a schermo) e che faccia di tutto per cercare di aggirare alcuni limiti dell’opera originale sui quali (molto alla lontana) si baserebbe, a cominciare dal ruolo di Shelly, che nell’opera di O’Barr è poco più di una donna angelica e ideale ma che ha, sostanzialmente, la funzione della “donna morta nel frigo” (quel personaggio femminile usato esclusivamente come scusa e meccanismo per dare al protagonista maschile un motivo per scatenare la sua vendetta). Nel film di Sanders, invece, Shelly è quantomeno un personaggio, con una storia, una sua caratterizzazione, le sue luci e le sue ombre (ed è anche ben interpretata da FKA Twigs).
Per il resto, che dire? Che gli elementi da cinecomic di supereroi sono mal implementati, poco ispirati e, a tratti, imbarazzanti? Assolutamente sì. Che il film, a parte qualche momento preso di peso dal fumetto, è così generico nella sua storia che potrebbe funzionare anche come remake splatter di Ghost? Certo. Che i primi due terzi della pellicola hanno un ritmo abbastanza incerto? Pure. Però il terzo atto è ottimo, Bill Skarsgård è fantastico (specie quando, dopo un lungo rimandare, indossa l’iconico cappotto e si fa il trucco da Corvo) e, per quanto mi riguarda, se non la storia in quanto tale, lo spirito dell’opera di O’Barr è pienamente rispettato: una storia d’amore adolescenziale dai toni fortemente tormentati e piena di sangue e violenza (come ogni storia d’amore adolescenziale deve essere, da Romeo e Giulietta in poi).
Non è un remake del film di Proyas (e non vuole esserlo, infatti si tiene lontano da qualsiasi strizzata d’occhio ai fan, e questo è un merito, nonostante quello che Gen X e Millennials possano dire) e, a voler essere onesti, non è nemmeno un nuovo adattamento dell’opera di O’Barr (con cui condivide un numero davvero limitato di elementi). È, piuttosto e semplicemente, un film di genere action-horror, molto dark, con un protagonista figo.
Se non si chiamasse The Crow, sarebbe stato apprezzato molto di più; invece, sta ricevendo bordate di odio e disprezzo ingiustificato da parte di un pubblico che ha premiato roba come Venom, per dire.
Se avete voglia di mettere i pregiudizi da parte e vedere un film che meriterebbe anche solo per il suo protagonista e per una bella scena d’azione, guardatelo.
Se siete di quelli che invece pensano che il passato sia sempre meglio del presente, lasciate perdere, perché lo odierete.
The Crow – Il Corvo arriverà nelle sale italiane il 28 agosto.