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Pooja, Sir dimostra il valore sociale del genere poliziesco

Pubblicato il 31 agosto 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Deepak Rauniyar, uno dei pochi registi nepalesi di fama internazionale, individua nel poliziesco lo strumento ideale per raccontare i conflitti del suo paese, scegliendo un punto di vista nient’affatto scontato: quello di un’ispettrice lesbica che pretende di essere chiamata “Signore”, come si evince già dal titolo Pooja, Sir.

L’eponima protagonista (Asha Magrati, moglie di Rauniyar e co-sceneggiatrice del film) vive con la compagna Rama (Gaumaya Gurung) e l’anziano padre (Chandra Dhoj Limbu) a Katmandu, ma viene inviata in una cittadina al confine tra Nepal e India per indagare sul caso di due bambini rapiti. Com’è accaduto realmente nel 2015, il paese asiatico è infiammato dalle proteste dei Madhesi, etnia di pelle scura che rappresenta più del 20% della popolazione nazionale: i Madhesi chiedono un trattamento paritario, uguali diritti e la stessa tutela nella costituzione nepalese. In questo contesto, due bambini scompaiono mentre sono fuori a giocare, e le implicazioni politiche sono chiare fin dal principio, dato che uno dei ragazzini è il figlio della preside della scuola, moglie di un parlamentare. Pooja si fa quindi aiutare da Mamata (Nikita Chandak), agente di etnia Madhesi che le permette di entrare in contatto con la comunità locale, molto diffidente verso la polizia.

Pur senza indulgere nel didascalico, il rapporto fra le due donne è centrale nell’economia del film, soprattutto in termini di opposizione: Pooja ha la pelle chiara, indossa abiti neutri o palesemente maschili, si comprime il seno con una fasciatura e porta i capelli corti; Mamata ha invece la pelle scura, è discriminata in quanto Madhesi, e il suo look è più tradizionalmente femminile. Ciononostante, è proprio la loro solidarietà a favorire la risoluzione del caso, in un contesto dominato dal sessismo e dal colorismo. Pooja, Sir mette in luce proprio le discriminazioni di natura sistemica, quando il razzismo entra persino nelle leggi dello Stato: il genere poliziesco, così radicato nelle istituzioni e nei suoi agenti, assume quindi uno spessore sociale, poiché ha la possibilità di muovere critiche dall’interno, svelando i limiti culturali e operativi del potere. La sceneggiatura – cui ha contribuito anche David Barker – restituisce bene il caos delle indagini, funestate dalle ingerenze della politica e dalle aspettative del capitano Madan (Dayahang Rai), che stima la protagonista e le dà fiducia, certo, ma è soprattutto il cane da guardia del potere.

In questo contrasto tra i valori del singolo e quelli delle istituzioni, la caratterizzazione di Pooja emerge in modo discreto, senza bisogno di ricorrere a eccessi melodrammatici o dialoghi esplicativi: quello che sappiamo di lei è implicito, traspare per deduzione attraverso il rapporto con gli altri personaggi, lasciando intendere che Pooja non possa – o non voglia – sbandierare troppo né il suo orientamento sessuale né i dettagli della sua vita privata («Hai portato un’estranea in casa nostra» le dice il padre a proposito di Rama, evidentemente ignaro del legame romantico fra le due donne). Questo sottile disagio è una traccia disseminata lungo tutto l’arco del film, ed è più importante rispetto all’identità dei rapitori, su cui non viene costruito alcun colpo di scena. In effetti, Rauniyar è più interessato alle motivazioni del rapimento che alla rivelazione dei colpevoli. La sua macchina da presa (con la fotografia di Sheldon Chau e il montaggio di J. Him Lee) scende nelle strade per ricreare la frenesia delle manifestazioni e la confusione degli inseguimenti, dimostrandosi abilissima nelle scene di massa: quando Pooja e la sua squadra organizzano una trappola per la consegna del denaro, il risultato è al livello delle migliori produzioni internazionali. Un cinema sociale e commerciale allo stesso tempo, capace di valorizzare sia i momenti più intimi sia quelli votati all’azione.