Riecco Pablo Larraín e le sue principesse tristi, segregate in torri d’avorio che le isolano dal mondo: con Jackie e Spencer, Maria forma infatti un’ideale trilogia che il grande regista cileno sembra aver realizzato per compiacere i gusti della madre, come aveva detto lui stesso a proposito del biopic su Diana. Spostando l’attenzione su Maria Callas, però, Larraín ritrova la qualità di Jackie più che le incertezze di Spencer, anche in virtù di una sceneggiatura – scritta ancora dal talentoso Steven Knight – che riempie i dialoghi di sentenze memorabili, divise tra approfondimento psicologico e consacrazione del mito.
Di nuovo, l’approccio di Larraín al biopic è il più rilevante sul piano artistico: il film racconta un momento specifico nella vita della magnifica soprano – l’ultima settimana prima della morte, nel settembre 1977 – per farne una sineddoche della sua intera esistenza. La Divina non si esibisce in pubblico da più di quattro anni, e vive in un appartamento di Parigi che sintetizza tutto il suo universo personale, mesto e decadente. Circondata dal fedele autista Ferruccio Mezzadri (Pierfrancesco Favino) e dalla domestica Bruna Lupoli (Alba Rohrwacher), la Callas (Angelina Jolie) è perseguitata dagli spettri del suo passato glorioso, alimentati da dosi massicce di metaqualone e altri farmaci in eccesso. Mentre la sua salute diviene sempre più precaria, Maria ha visioni del defunto amante Aristotele Onassis (Haluk Bilginer) e dei suoi antichi successi nei teatri di tutto il mondo, la Scala in primis.
Tali visioni permettono a Larraín e Knight di rievocare alcuni episodi cruciali nella vita della Callas, come lo stesso incontro con Onassis e la giovinezza in Grecia, quando Maria era costretta dalla madre a esibirsi per gli ufficiali nazisti. Ma il cineasta cileno, abituato a lavorare su diversi piani di realtà, svela l’artificio fin dall’inizio: il film è infatti suddiviso in tre atti e un epilogo, introdotti da titoli scritti sulle lavagnette di una vecchia produzione cinematografica. Non a caso, la narrazione di Maria è scandita dalle riprese di un documentario – il cui regista è interpretato da Kodi Smit-McPhee – che però esiste solo nella testa della diva, impegnata a scrivere una sorta di autobiografia mentale. Larraín ci ricorda così che la vita della grande soprano è stata una continua messa in scena: sul palco, sui tabloid, nella costruzione di un’immagine mitizzata da dare in pasto al pubblico. Anche per questo, nel film compaiono spesso i più svariati dispositivi per la registrazione o la riproduzione sonora e visiva (la telecamera dell’operatore, i registratori dei giornalisti e quello comprato da Ferruccio, i giradischi su cui Maria riascolta le sue incisioni…), rendendo palese come la vita della Callas fosse una stratificazione di livelli sovrapposti, messinscene su altre messinscene.
Per trovare la sua verità più intima dobbiamo scendere fino al nucleo, laddove Maria vive la sua solitudine di diva decaduta, in cerca di una venerazione che la soddisfa solo in superficie: nemmeno il fan più devoto può capire la sua difficoltà nel dare voce alla musica, nel tirare fuori quell’arte che si esprime in modo diverso a ogni esibizione. Lo scollamento tra l’artista e il suo pubblico è determinante nella sceneggiatura di Knight, che evidenzia l’autoisolamento della cantante in un mondo spietato, incapace di perdonare il declino della sua carriera e delle sue doti vocali. Il fatto che i personaggi parlino spesso per sentenze non è affatto pretenzioso in questo contesto di mitizzazione: al contrario, Knight usa i dialoghi per denudare il lato intimo della Callas, dando voce sia al peso della sua eredità culturale («Per noi greci la morte è una compagna di vita sempre vicina») sia alla relazione tormentata fra l’opera lirica e la sua più straordinaria interprete. A un certo punto viene persino accennato un parallelismo tra la stessa Maria e la Violetta Valéry de La traviata, con cui la diva condivide un tragico destino, seppure per ragioni diverse.
D’altra parte, è proprio la voce della Divina ad accompagnare il film, ma sempre per sottolineare il ricordo di un passato irripetibile, con una nota di languida malinconia. Se alcune soluzioni sono più scontate (il bianco e nero per i flashback), Larraín si conferma però un fuoriclasse nel muovere o posizionare la macchina da presa, abilissimo a costruire le inquadrature con campi totali o riprese più ravvicinate, a seconda dell’occasione. Approssimandosi al viso di Angelina Jolie, il regista cerca i conflitti di una donna inquieta, e riesce a trovarli soprattutto quando il film ci ha ormai trascinato nel suo vortice emotivo: bisogna quindi aspettare un po’ di tempo prima di vedere Maria Callas nel volto dell’attrice americana, forse troppo riconoscibile per sparire completamente dietro la maschera del personaggio (impresa che era invece riuscita a Natalie Portman in Jackie, ma si trattava di un’interprete davvero sopraffina). Maria resta però un biopic di notevole finezza, dove ogni parola ha un peso specifico enorme, e il linguaggio delle immagini – la splendida fotografia è di Edward Lachman – si adatta alle esigenze della storia.