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El Jockey è già il film più folle, assurdo e divertente di Venezia 2024

Pubblicato il 29 agosto 2024 di Giulio Zoppello

C’era moltissima curiosità tra gli addetti ai lavori riguardo a cosa ci avrebbe offerto l’argentino Luis Ortega, uno dei registi più imprevedibili, folli e sorprendenti di oggi, sicuramente tra i più riconoscibili per la sua volontà di stupire sempre e comunque. La sua capacità di recuperare il meglio di una certa cinematografia dell’assurdo trionfa in questo El Jockey, coloratissimo e stralunato, nonché antitetico al machismo di quell’Argentina che Ortega dipinge in modo ridicolo eppure tenero.

Un fantino un po’ matto alle prese con un cambio di personalità

El Jockey non ha una trama che possa essere definita in modo esattamente lineare, ma proviamoci lo stesso. Protagonista di questo racconto è il fantino Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart), un vero e proprio asso delle corse nell’ippodromo, di cui è considerato il divo per eccellenza. Assieme alla fidanzata Abril (Ursula Corberó) trionfa in groppa ai destrieri di proprietà del gangster Sirena (Daniel Giménez Cacho), un personaggio che spesso ricorre a metodi spicci, ma che per loro due, in attesa di un figlio, mostra stranamente parecchia clemenza. Remo, infatti, è dedito all’alcool e alla droga, e segue uno stile di vita malsano nel tentativo di combattere la paura o chissà cos’altro. Quando, nuovamente strafatto, si sfracella in groppa a un costoso destriero giapponese, finendo in coma, al suo risveglio molto, moltissimo di lui è cambiato. Remo non esiste più, ma intanto per gli altri la vita va avanti. Oppure no?

El Jockey ci prende per mano e ci guida in una commedia dell’assurdo, con frequenti inserti musicali e una messa in scena volutamente tra il teatrale e il televisivo, inteso come quello del varietà di un tempo. La fotografia di Timo Salminen è volutamente votata all’esaltazione di ambienti che devono dare l’impressione di una lucida follia, che poi è anche l’obiettivo dell’asciutta e fredda regia di Luis Ortega. Così facendo, in realtà, aumenta l’effetto di straniamento e la sublimazione del contrasto tra sogno e realtà. Il confine tra queste due dimensioni qui è assolutamente assente, senza però scivolare in qualcosa di già visto o prevedibile. Al contrario, El Jockey diventa una sorta di enigma che affonda le sue radici nel concetto di identità e nel suo cambiamento, che va al di là del genere e abbraccia l’essenza kafkiana della solitudine del diverso dalla norma, della trasformazione di sé stessi e del rapporto tra vita e morte. Tutto questo, però, in un film che sa come divertire con una comicità slapstick, con gag simili al vaudeville, straniamenti e personaggi che sembrano sbucati da un fumetto, dal sogno di un ubriaco o dalla fantasia di un bambino.

La libertà attraverso il cambiamento, il cambiamento attraverso la perdita di memoria di sé

El Jockey può contare su un Nahuel Pérez Biscayart semplicemente sensazionale, una sorta di Buster Keaton moderno, che si destreggia sia nei panni di questo cavaliere matto, sia in quelli di ciò che diventerà dopo. La Corberó è una Musa sensuale e forte, il pilastro di una narrazione che Luis Ortega utilizza anche per distruggere i cosiddetti “ruoli tradizionali” in uno dei paesi più tradizionalisti del Sud America. Il film ricorda molto il cinema di Pedro Almodóvar agli inizi della carriera, con la sua carica sessuale giocosa, l’occhiolino strizzato al mondo LGBTQ e la distruzione del “macho” in tutte le sue forme. Tuttavia, è innegabile anche il legame con il concetto di incomunicabilità e di enigma narrativo proprio di un David Lynch, con quei cromatismi estremi e quei personaggi misteriosi e accattivanti, stilizzati come in un quadro dadaista. Dopo aver raccontato di serial killer e coppie in crisi, Luis Ortega si conferma un regista atipico, imprevedibile, innamorato degli stereotipi reali o della narrazione audiovisiva, che usa come base per un’opera di demolizione del senso e dei generi davvero accattivante. Si ride tanto, tantissimo, ma ci si trova sempre a galleggiare in un mondo in cui la libertà è solo apparente, come quella di quei cavalli lanciati sempre al galoppo ma impossibilitati a raggiungere l’orizzonte. Per Ortega, il cambiamento è forse l’unico modo in cui possiamo raggiungere quell’orizzonte. Egli lascia che tutto si realizzi davanti alla telecamera come se fosse privo di una volontà suprema, in un’amnesia del passato che per lui è la sola vera strada per smettere di essere ciò che non vogliamo più essere. In questo senso, si pone come parallelo al cinema di Quentin Dupieux, un altro regista capace di giocare con lo spettatore, con i tempi comici e le identità, ma da cui si distanzia per la volontà di essere soprattutto un narratore della libertà individuale e intima, di una filosofia di vita più che di cinema e arte in sé. Difficile prevedere se El Jockey possa ambire a qualcosa in questa Venezia 2024, dominata da grandi nomi e colossi, ma già ora è metaforicamente l’erede di ciò che fu Mandibules quattro anni fa. Di chi era? Di Dupieux, naturalmente.