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E i figli dopo di loro, la recensione da Venezia 81

Pubblicato il 31 agosto 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Nel mito dell’infanzia e dell’adolescenza, l’estate è sempre la stagione del cambiamento. Stephen King ha costruito buona parte del suo immaginario su questa concezione, e non è difficile empatizzare con un’idea tanto romantica, fatta di estati infinite e di avventure che segnano il passaggio all’età adulta. E i figli dopo di loro, basato sull’omonimo romanzo di Nicolas Mathieu, è suddiviso in quattro “atti” che corrispondono ad altrettante estati, dal 1992 al 1998, imbastendo un racconto di formazione dove l’intimismo si alterna a toni quasi epici, da storia corale.

Il talentoso Paul Kircher, recentemente apprezzato in The Animal Kingdom, presta il volto ad Anthony, quattordicenne di una cittadina operaia nella Francia orientale. Siamo nell’estate del ’92, periodo di transizione per tutta l’Europa: la fabbrica siderurgica ha chiuso i battenti, la valle si sente isolata dal mondo che conta, e gli adolescenti trascorrono il tempo fra nuotate nel lago e feste ad alto tasso alcolico. È proprio durante una festa che Anthony conosce Steph (Angelina Woreth), ragazza per cui sente un’immediata attrazione, ma che proviene dal quartiere più benestante della città. Per farsi notare, Anthony entra in conflitto con Hacine (Sayyid El Alami), marginalizzato perché appartenente alla comunità magrebina, e ne subisce le conseguenze: Hacine ruba infatti la moto di Anthony, che quest’ultimo aveva preso dal padre Patrick (Gilles Lellouce) senza il suo permesso. La ricerca del maltolto coinvolge anche sua madre Hélène (Ludivine Sagnier), che teme l’ira dell’uomo tanto quanto lui, ma le conseguenze si ripercuoteranno anche sulle estati successive.

Con un salto di due anni fra un “atto” e l’altro, E i figli dopo di loro ci permette di seguire la crescita di Anthony, Steph e Hacine tra la pubertà e l’inizio dei vent’anni, in una tensione continua tra separazione e allontanamento. Il viso imbronciato di Paul Kircher, nascosto dai lunghi capelli che lo schermano dal mondo, imposta subito un tono: Anthony è un eroe clamorosamente imperfetto, eppure così autentico nelle sue reazioni istintive, nel suo portamento goffo e spesso taciturno. Nemmeno le situazioni più rischiose smuovono la sua aria imperturbabile, mentre lotta per smarcarsi dall’eredità paterna e costruirsi una vita autonoma. Se il film adotta alcuni codici del western urbano (la suspense trattenuta, il dualismo fra due avversari), Anthony è una rielaborazione del pistolero solitario, che qui diventa giovane e scapestrato, fallibile e inesperto; un paladino della Generazione X, la prima tradita da un mondo che comincia a smarrire le sue antiche certezze.

I fratelli Ludovic e Zoran Boukherma, registi e sceneggiatori dell’adattamento, riescono a mantenere un passo trascinante lungo tutto l’arco del racconto (che dura quasi due ore e mezza), alternandone i toni a seconda delle circostanze: a volte tragicomiche, a volte buffe, a volte drammatiche, a volte romantiche. Lo fanno con una certa consapevolezza del linguaggio da adottare, perché E i figli dopo di loro ha l’onestà di far parlare i personaggi in modo autentico, senza censure né ipocrisie. Gli anni Novanta erano davvero un’altra epoca, in questo senso. E, se il linguaggio verbale non ha freni, anche quello visivo è altrettanto furibondo: si veda la scena del ritrovamento della moto in fiamme, o quella dell’aggressione di Hacine ad Anthony nel bagno, entrambe magistrali per coreografia, ritmo, costruzione delle inquadrature e movimenti di macchina.

Il risultato è un nuovo gioiellino del coming of age, in grado di rievocare il passato senza retorica né cliché, ma avvalendosi di una colonna sonora memorabile che spazia con disinvoltura da You Can’t Hurry Love delle Supremes a Nothing Else Matters dei Metallica.