Ci vuole un pizzico di cinismo per ammettere che, creativamente parlando, gli anni migliori di Tim Burton coincidano con il periodo più inquieto della sua vita, prima che trovasse nel privato una meritatissima stabilità emotiva. Beetlejuice è frutto di quella straordinaria epoca di fermento artistico, quando Burton riuscì a imporre la sua originalità nell’immaginario collettivo, tra influenze composite (l’architettura gotica, l’espressionismo tedesco, i disegni di Edward Gorey, gli horror della Hammer) e una rilettura del “mostro” come figura emarginata e incompresa. Non a caso, il film del 1988 ribaltò completamente il sottogenere delle case infestate, adottando in modo giocoso il punto di vista dei defunti e relegando i vivi al ruolo di nevrotici scocciaturi. L’unica eccezione era la Lydia Deetz di Winona Ryder, che ora torna come protagonista di Beetlejuice Beetlejuice, sequel cullato per decenni dalla Warner Bros: una sceneggiatura – intitolata Beetlejuice Goes Hawaiian – esisteva infatti già negli anni Novanta, come racconta Kevin Smith in un divertente monologo.
Non ci sono però le Hawaii nel copione di Alfred Gough e Miles Millar, anche autori del soggetto con Seth Graham-Smith, che per Burton aveva scritto Dark Shadows: la sceneggiatura dei creatori di Mercoledì ci riporta infatti a Winter River, il paesino del Connecticut dove si svolgeva il primo film. Lydia si guadagna da vivere come sensitiva e cacciatrice di fantasmi in televisione, coadiuvata dal fidanzato e manager Rory (Justin Theroux), tipo bizzarro e imbevuto di filosofie New Age. Astrid (Jenna Ortega), figlia di Lydia, si tiene il più lontano possibile da sua madre, e vive nel ricordo dell’amato padre Richard (Santiago Cabrera), morto in Brasile durante una delle sue missioni ambientaliste. L’improvvisa scomparsa del nonno Charles la costringe però a ristabilire i contatti con la famiglia, inclusa l’egocentrica Delia (Catherine O’Hara), matrigna di Lydia. Superata la fase scultorea, Delia è diventata un’artista performativa, e decide di trasformare in una performance anche il funerale di Charles: ecco perché l’allegra brigata ritorna a Winter River, nella villa che la coppia aveva acquistato dopo la morte di Adam e Barbara Maitland.
Il luogo non è più infestato dai loro spettri, e la sceneggiatura fa ben poco per spiegarne l’assenza; stando alla loro assistente tombale – ricordate? – sarebbero dovuti rimanere nella casa per 125 anni. Nel plastico in soffitta c’è però ancora Betelgeuse (Michael Keaton), il laido spiritello che ora gestisce un’intera agenzia di bio-esorcismo. Il suo staff è una squadra di fantasmi dalla testa rimpicciolita, identici alla creatura più buffa del film originale: la dimostrazione di come i sequel – soprattutto quando arrivano a grande distanza dal primo capitolo – tendano a espandere persino gli elementi più marginali, se si sono rivelati popolari nel corso degli anni. In effetti, Beetlejuice Beetlejuice ripropone tutto il campionario mostruoso che ben conosciamo: quando Astrid finisce con l’inganno nell’aldilà, Lydia deve chiedere l’aiuto di Betelgeuse per salvarla, ma il bio-esorcista deve anche vedersela con il ritorno della sua prima sposa (Monica Bellucci), che succhia le anime dei morti e vuole vendicarsi di lui. Sul caso indaga Wolf Jackson (Willem Dafoe), boriosa superstar del cinema d’azione diventato commissario nel regno dei defunti.
Se è vero che le diverse fasi della carriera di Tim Burton sono influenzate dalla sua vita personale, Beetlejuice Beetlejuice riflette il Burton di oggi, ansioso di ritrovare il vecchio entusiasmo dopo la delusione di Dumbo. Il successo commerciale di Mercoledì (dove pure la sua impronta era ben sbiadita) gli ha ridato fiducia, e questo film è un’emanazione involontaria della serie, con Jenna Ortega che interpreta quasi un doppio di Mercoledì Addams – conflitti familiari e scolastici compresi – e si ritrova in situazioni simili. Il resto è una celebrazione del cult originale, ma portata alle estreme conseguenze. Determinato a provare di non aver perso il suo tocco, Burton mette in scena circostanze più macabre e sanguinose rispetto al predecessore, ma sempre con il piglio ilare e parossistico dell’originale. La netta predilezione per gli effetti pratici – la CGI è ridotta all’essenziale – gli viene in soccorso: fra pupazzi animatronici e make-up, il risultato è spassoso e materico come in una giostra degli orrori. Lo stesso discorso vale anche per le animazioni in stop motion, tecnica amatissima da Burton, usata sia per i vermi delle sabbie sia per la morte di Charles. Certo, nel 1988 erano queste le tecnologie dominanti, mentre oggi divengono un gagliardetto di autenticità, con tutto l’orgoglio “vecchia scuola” che ne consegue: un metodo di lavoro che, al di là del feticismo nostalgico, cambia tutta l’atmosfera sul set.
Soprattutto, però, ritorna qui un’idea cruciale nella poetica burtoniana, già al centro sia del primo Beetlejuice sia de La sposa cadavere: l’aldilà come dimensione più allegra e colorata rispetto al mondo dei vivi, tipica di uno sguardo sulfureo che rigetta la “normalità” e il suo conservatorismo. In effetti, le scene più stereotipate si svolgono proprio fra i viventi, ma è solo un gioco di fumo e specchi dietro cui si nasconde l’inganno, come se Burton non si fidasse troppo della realtà. Si sente chiaramente il suo desiderio di tornare alle origini, non soltanto sul piano tematico e tecnologico, ma anche citazionistico: ci sono le scenografie sghembe dell’espressionismo tedesco, un intero flashback ispirato a Mario Bava (peraltro narrato in italiano) e un accenno a La moglie di Frankenstein nel personaggio di Monica Bellucci. Insomma, gran parte dei suoi numi tutelari.
È evidente quanto il film si impegni a stupire e divertire, ottenendo risultati non sempre proporzionali ai suoi sforzi: la trama affastella troppe ramificazioni narrative, e le risolve in modo un po’ frettoloso. In compenso, ha il merito di rilanciare costantemente l’attenzione con qualche trovata simpatica, sfociando poi in un finale spiazzante che cerca di non rassicurarci troppo. L’esito è altalenante, ben sintetizzato dalla sequenza musicale con MacArthur Park di Richard Harris: un momento che scimmiotta la Day-O (Banana Boat Song) del primo film, ma che ovviamente non può raggiungere livelli altrettanto memorabili, e si trascina fin troppo a lungo. Eppure la passione c’è tutta, insieme alla volontà di riaffermarsi come la voce più eccentrica e anticonvenzionale di Hollywood. Se Beetlejuice Beetlejuice darà inizio a una nuova fase nella sua carriera, sarà perché Burton è tornato a concentrarsi su quello che ama di più, idiosincrasie comprese.