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Babygirl, la recensione del film di Halina Reijn da Venezia 81

Pubblicato il 30 agosto 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Ci voleva una regista europea perché Hollywood tornasse a parlare di sesso senza moralismi: Babygirl di Halina Reijn, cineasta olandese come il suo nume Paul Verhoeven, resuscita l’erotico patinato degli anni Novanta con una sensibilità nuova, consapevole dei temi che affronta e generalmente antiretorica.

Le radici affondano proprio in quel cinema di tentazioni e tradimenti che fece la fortuna di registi come Adrian Lyne, ma i generi stavolta sono ribaltati. Nella posizione di potere troviamo infatti una donna, la Romy di Nicole Kidman, fondatrice e CEO di una compagnia specializzata in automazione: Reijn – anche sceneggiatrice – la presenta fin dall’inizio come la girlboss definitiva, sposata con un regista teatrale (Antonio Banderas) e madre di due figlie. Romy è però insoddisfatta della sua vita sessuale, quindi cerca l’orgasmo nella pornografia su internet, con una predilezione per i video di sottomissione femminile. Le sue fantasie prendono vita grazie all’incontro con Samuel (Harris Dickinson), giovane stagista che la salva dall’aggressione di un cane. Il modo in cui Samuel doma la bestia solletica in lei un’attrazione profonda, che si concretizza ben presto in un rapporto burrascoso. La dinamica però è chiara: Romy si eccita nel ricevere ordini, e nell’essere volontariamente soggiogata da un uomo che può disporre del suo corpo come desidera.

La chiave sta proprio nella volontarietà di tale sottomissione. In una scena cruciale, Samuel spiega a Romy che questa relazione deve basarsi su regole accettate da entrambi, e le chiede di scegliere una safe word per interrompere il gioco a suo piacimento: Romy, insomma, può sempre mantenere il controllo su quello che succede. Babygirl è un raro caso di film commerciale che non ridicolizza le pratiche BDSM (né tantomeno chi vuole essere dominato), ma le tratta con serietà e competenza, “normalizzando” le più svariate declinazioni del desiderio sessuale: non è poco, per una produzione che cerca mercato grazie alla firma di A24 e ai nomi di Kidman e Banderas sul cartellone. D’altra parte, Reijn ha l’arguzia di intrecciare questo discorso con una riflessione sulle dinamiche di potere; chi, fra Romy e Samuel, lo detiene per davvero? Anche il recente Sanctuary ha provato a ragionare sugli stessi temi, fallendo perché incapace di smarcarsi da una visione moralista. Babygirl è invece ben più lucido e onesto nella sua disamina dei rapporti, soprattutto quando li intreccia con i conflitti interni di una società tecnologica, mostrando tutti i limiti del femminismo “istituzionale”: quello, per intenderci, che resta inquadrato nelle logiche capitalistiche, e conferma il sistema invece di opporsi a esso.

Non è un caso che il gioco di potere coinvolga anche Esme (Sophie Wilde), l’assistente di Romy, che sogna un programma per aiutare la crescita professionale delle impiegate: «Stai confondendo l’ambizione con la moralità, e sono molto diverse» dice Romy quando Esme la ricatta, mettendone a nudo l’ipocrisia. Così, Babygirl ci ricorda che il potere corrompe chiunque lo possieda, e la presenza di donne nei ruoli dirigenziali non cambia necessariamente la cose (soprattutto quando il sistema dominante rimane lo stesso). Ne emerge una protagonista femminile che non deve venire a patti con le pressioni esterne per imporre sé stessa, ma afferma la sua vera natura in modo liberatorio, senza bisogno di giustificarla con traumi infantili o responsabilità genitoriali. È anche per questo che Reijn evita qualunque deriva retorica, drammatica o moralista: il suo scopo non è fare una lezioncina, né un racconto ammonitore in stile Attrazione fatale, ma narrare una vicenda di persone adulte con piglio altrettanto maturo.

L’esito funziona perché, oltre a dimostrare che certe fantasie erotiche possono essere vissute in modo sano all’interno della coppia, Babygirl gioca con la ricostituzione del nucleo familiare, cliché amatissimo da Hollywood, ma solo per svelarne la realtà nascosta. La mente, come sappiamo bene, è l’ultimo baluardo della libertà personale.