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Alien: Romulus, la recensione

Pubblicato il 14 agosto 2024 di Lorenzo Pedrazzi

Alien: Romulus è il risultato di un processo che sta colpendo i grandi franchise del nostro immaginario collettivo, soprattutto quelli nati negli anni Settanta e Ottanta, epoca in cui il modello dei blockbuster ha cominciato a dominare Hollywood. Lo abbiamo visto di recente con Star Wars, giusto per fare l’esempio più chiassoso: nel momento in cui gli autori originali si fanno da parte, il testimone passa nelle mani dei fan, ovvero registi e sceneggiatori di nuova generazione che con quelle saghe ci sono cresciuti, e ora si ritrovano nella posizione di poterle gestire. Ciò che ne deriva è quindi una forma glorificata di fan fiction (in senso letterale), approvata dall’alto e investita di ufficialità.

Le tracce sono ben visibili nel film di Fede Álvarez, a partire dalla scelta di raccontare una storia nuova, con personaggi inediti, ma sempre all’interno del canone. Il suggestivo prologo si collega direttamente al cult di Ridley Scott, chiarendo subito la posizione di questo episodio nella cronologia della saga: a metà strada tra Alien e Aliens, per intenderci. L’azione si sposta però su una colonia mineraria della Weyland-Yutani, dove vivono Rain Carradine (Cailee Spaeny) e suo fratello Andy (David Jonsson), in realtà un “sintetico” riprogrammato dal defunto padre di Rain perché le stia vicino. Andy ha però un ritardo nello sviluppo cognitivo, quindi è la ragazza che si occupa di lui, non viceversa. Insieme ai loro amici, tutti sui vent’anni, i due rappresentano la classe operaia del futuro: una via di mezzo tra il proletariato novecentesco e l’antica servitù della gleba, poiché sono obbligati a lavorare per un certo numero di anni – che viene aumentato a discrezione dell’azienda – prima di ottenere il permesso di andarsene.

Alien: Romulus

La colonia mineraria in cui vivono è un incubo caotico e buio, mai raggiunto dalla luce della stella più vicina. A tal proposito, Álvarez restituisce bene questa idea di precarietà costante, dove gli interessi del capitale soverchiano i diritti umani più elementari: come se lo spazio fosse una zona grigia e deregolata, capace di spingere all’estremo le ingiustizie sociali del presente. Non c’è quindi da stupirsi che Tyler (Archie Renaux), uno dei ragazzi con cui Rain è cresciuta sulla colonia, abbia un piano per scappare. L’idea è semplice, almeno in apparenza: raggiungere la stazione Renaissance, un centro di ricerca abbandonato che orbita attorno al pianeta, e rubare le capsule per il criosonno. Così, Tyler, Rain e il loro gruppo di amici – ci sono anche lo spaccone Bjorn (Spike Fearn), la tosta Navarro (Aileen Wu) e la dolce Kay (Isabela Merced), sorella di Tyler – potranno fuggire verso un futuro migliore. Purtroppo per i nostri eroi, la Renaissance è una stazione della Weyland-Yutani che compiva esperimenti sugli xenomorfi, e le conseguenze sono facili da immaginare.

Inutile dire che i seguaci della saga scoveranno molti dettagli riconoscibili. Alien: Romulus, come accennato all’inizio, è frutto della passione di un fan che conosce bene le aspettative del suo pubblico, ma sa anche muoversi nell’universo creato da un altro. La sceneggiatura scritta con il sodale Rodo Sayagues mette ordine nei pasticciati prequel di Ridley Scott, attribuendo coerenza narrativa persino alle scoperte di Prometheus e Covenant, mentre rubacchia qualcosa da tutti i capitoli della serie (compreso, un po’ a sorpresa, il quarto di Jean-Pierre Jeunet). È però dal dittico originale, considerato a ragion veduta l’apice del franchise, che Álvarez recupera la maggior parte degli elementi. Non è un caso che la Renaissance sia divisa in due sezioni, la Remus e la Romulus: al di là dei riferimenti mitologici al legame fraterno tra i protagonisti, questa ripartizione rievoca i primi due episodi, con due tipi diversi di tensione in gioco. La parte ambientata sulla Remus guarda soprattutto al film di Scott (l’idea della casa infestata nello spazio, il singolo xenomorfo che dà la caccia ai personaggi), mentre sulla Romulus si consuma la maggior parte dell’azione, con tanti xenomorfi e grossi fucili come nel memorabile sequel di James Cameron.

Alien: Romulus

Citazioni e easter egg sono sparsi ovunque, compreso un ritorno clamoroso che suscita i soliti dubbi sui prodigi del digitale, e sul loro utilizzo per mano dei grandi studios. D’altra parte, è l’opera di un fan che gioca con il suo giocattolo favorito: è prevedibile che voglia citare scene o battute entrate nell’immaginario del pubblico. A volte le integra bene nel racconto, altre – una in particolare – suonano forzate, e finiscono solo per denudare l’artificio. Nel complesso, però, Alien: Romulus ha il pregio di riportare il franchise alle sue radici più essenziali: niente cosmogonie astruse, niente discorsi pretestuosi sui massimi sistemi, ma tanta materia organica da esplorare e attraversare, nel segno del caro vecchio body horror. Funziona anche per merito della sua qualità materica, con grandi scenografie, trucchi fisici e creature animatroniche, sempre ben amalgamante alla CGI. Álvarez, con un po’ di feticismo retrofuturistico, torna a quell’idea di futuro “pesante” che poteva esistere negli anni Settanta e Ottanta, tra schermi a bassa definizione e pulsantiere ingombranti. Ma, soprattutto, si diverte a recuperare le allusioni sessuali dei disegni di H.R. Giger: il film è infatti ricco di dettagli piacevolmente “scabrosi”, con la materia aliena che talvolta riproduce i genitali maschili e femminili; basti vedere le parti anatomiche di xenomorfi, facehugger e altri mostri, come pure la fenditura del bozzolo in cui la creatura passa dallo stato larvale a quello adulto.

In generale, si ha l’impressione di assistere a un blockbuster che non edulcora le sue suggestioni organiche, ma abbraccia una visione del futuro sporca, ruvida e caliginosa, lontanissima da qualunque utopia asettica. Piuttosto, esprime la dualità del nostro rapporto con la tecnologia in generale, e con l’intelligenza artificiale in particolare: Andy e i sintetici sono affidabili finché restano sotto il controllo del singolo, ma diventano inquietanti quando servono uno scopo più grande, sottoposti a direttive aziendali e non più individuali. È anche per questo che Andy si rivela forse il personaggio più interessante, essendo il più tragico e meno stereotipato, mentre gli altri rientrano in tópoi predefiniti. Non è quindi la suspense a catturare l’attenzione, né tantomeno la paura, presente in dosi limitate; Alien: Romulus trascina e incuriosisce perché mette in scena creature – sia umane sia aliene – in evoluzione perenne, all’insegna di una metamorfosi che non ha fine. Ogni stadio non è mai quello definitivo, bensì un mezzo di passaggio verso qualcos’altro. Il brivido, più di shock che di terrore, viene soprattutto da qui.