C’è una scena cruciale di Twisters in cui un tornado dalla potenza devastante sta per abbattersi su un cinema dell’Oklahoma. La sala ospita una rassegna di vecchi monster movie, e in quel momento sta proiettando il Frankenstein di James Whale, un classico dei mostri Universal. «It’s alive!» urla il Dr. Frankenstein quando la creatura prende vita, proprio mentre il tornado sradica la facciata del cinema e risucchia lo schermo, sul quale scorrono ancora le immagini del film.
È una sequenza che la dice lunga sul modo in cui la narrazione hollywoodiana concepisce i disastri naturali. Di fronte a calamità tanto spaventose, l’istinto è di ricondurle su binari controllabili e riconoscibili: quelli della lotta manichea tra l’uomo e il mostro, tra il bene e il male. I tornado di Twisters sono come kaijū giganteschi che annientano ogni traccia umana sul loro percorso, e non è un caso che i personaggi ne parlino come se fossero entità autocoscienti, peraltro usando il femminile («She’s beautiful!» esclamano ammirati davanti alla formazione di una tromba d’aria). La battuta più rivelatrice, però, è all’inizio del film. La protagonista Kate Cooper (Daisy Edgar-Jones) è una studiosa di fenomeni atmosferici che ha rinunciato al lavoro sul campo dopo un gravissimo trauma, e ora continua a tracciare il percorso dei tornado da un ufficio di New York City. A cinque anni da quegli eventi drammatici, il suo vecchio amico Javi (Anthony Ramos) la spinge a tornare con lui nella natia Oklahoma per sperimentare un nuovo sistema di scanning tridimensionale, che permette di riprodurre un’immagine molto dettagliata dei tornado. Nel tentativo di convincerla, Javi le ricorda che i tornado sono sempre più frequenti sul territorio, e «stanno arrivando per distruggere le nostre case»; come se fossero davvero mostri dotati di volontà propria, o magari tribù di nativi che vanno a caccia di coloni.
Non senza coerenza, il film di Lee Isaac Chung si diverte ad attribuire ai tornado dei ruggiti spaventosi, li ritrae in una danza che pare quasi un corteggiamento, li fa passeggiare su città e raffinerie come impalpabili Godzilla: un monster movie, insomma, ancora più che un disaster movie. Già l’originale di Jan De Bont rileggeva i tornado come entità mostruose, ma era figlio (e forse principale esponente) della nuova ondata di film catastrofici che stava travolgendo gli anni Novanta; Twisters, invece, guarda almeno in parte al cinema dei sopracitati kaijū, tornati di moda nell’ultimo decennio anche a Hollywood. E infatti, se nel primo film l’obiettivo era studiare la struttura interna dei tornado, qui invece Kate elabora un sistema per farli collassare – e quindi dissolverli – riducendone l’umidità interna: in altre parole, è il buon vecchio topos narrativo dello scienziato che trova un modo per uccidere il mostro. La studiosa accetta quindi di tornare in Oklahoma per unirsi agli Storm Par, la squadra di Javi, ma devono vedersela con la concorrenza dei Tornado Wranglers: una banda di cacciatori di tornado molto famosi su internet, guidati dallo spericolato Tyler Owens (Glen Powell).
Inutile dire che l’apparenza inganna. La sceneggiatura di Mark L. Smith (su storia di Joseph Kosinski) rivela ben presto che i “superficiali” Wranglers in realtà vendono merchandise per aiutare le popolazioni colpite dalle calamità naturali, mentre gli Storm Par sono finanziati da un cinico affarista che specula sui terreni devastati dalle trombe d’aria: quando un proprietario ha bisogno di vendere perché i tornado lo hanno ridotto sul lastrico, lui arriva e compra le sue proprietà a prezzi stracciati. È il capitalismo, bellezza. Ovviamente i nostri eroi combatteranno tutto questo, opponendo solidarietà e ingegno all’oppressione del capitale. È il solito paradosso di Hollywood: i grandi studios criticano proprio quel sistema economico di cui sono parte integrante. Lo fanno però con un blockbuster accattivante, ben girato da un cineasta che sa alternare spunti intimisti (è pur sempre l’autore di Minari) a momenti di grande spettacolo visivo. Twisters è puro cinema delle attrazioni, nel senso più contemporaneo del termine: un colossal che non può fermarsi nemmeno un secondo, ma corre dall’inizio alla fine con la stessa foga dei protagonisti quando si lanciano nell’occhio del ciclone. Non tanto un film di trama, quanto di azione e ripetizione, come un esperimento scientifico che necessita di numerosi tentativi prima del successo finale.
A fargli gioco c’è un cast che ha l’aria di spassarsela moltissimo. Glen Powell, nuova star mondiale che nell’ottimo Hit Man ha già dimostrato la sua ampia gamma espressiva, non perde colpi nemmeno quando interpreta il fascinoso spaccone con la commedia romantica nel sangue (l’epilogo, in tal senso, è molto indicativo). Attorno a lui, i Tornado Wranglers divertono per il loro spirito guascone, anche se Sasha Lane e Katy O’Brian sono sprecate in ruoli di contorno. Dal canto suo, la Kate di Daisy Edgar-Johns non vanta una caratterizzazione memorabile, ma risulta funzionale alla trama e al dualismo con Tyler: è una giovane donna che deve ritrovare il suo spirito avventuroso, e sarà proprio l’avventura a permetterle di elaborare il trauma. Come insegna la tradizione hollywoodiana, un personaggio non finisce mai il suo arco narrativo nello stesso punto in cui lo aveva iniziato, e l’azione ha sempre un valore formativo. In effetti, la sceneggiatura dà più importanza a questi elementi – un po’ scolastici ma efficaci – che al fan service, in controtendenza con i franchise degli anni Duemila: i riferimenti al film del 1996 sono molto pochi, e le strizzatine d’occhio quasi inesistenti.
Accade allora che, nell’abbuffata pirotecnica di Twisters, Chung riesca a ricavare qualche lampo di meraviglia, quando le note più delicate della colonna sonora di Benjamin Wallfisch esprimono lo stupore dei protagonisti al cospetto della natura: è una normale reazione istintiva di fronte al sublime, soprattutto nella sua forma più spaventosa, che si tratti di un evento atmosferico o di un mostro stupefacente. In questo caso, i due fenomeni sono indistinguibili.