Cinema roberto recchioni Recensioni
È il 1980. Alien è uscito da un anno quando Ciro Ippolito produce, scrive e dirige Alien 2 – Sulla Terra, un film che con quello di Ridley Scott non ha nulla a che vedere. L’idea non è del tutto inedita perché, appena l’anno prima, Lucio Fulci aveva girato il suo Zombi 2, che non era collegato in nessun modo a Zombi (la versione europea diretta da Romero ma rimontata da Dario Argento di Dawn of the Dead). Il meccanismo è una furberia “molto italiana” del cinema “di rapina”, quel tipo di produzioni fatte in pochissimo tempo e con pochissimi soldi che, con un titolo che rimandava più o meno esplicitamente a un film famoso, cercavano di raggranellare qualche soldo. Nel caso di Zombi 2 e Alien 2 si cercava anche di sfruttare il fatto che le parole “zombi” e “alien” fossero troppo generiche per essere protette da copyright.
E, in effetti, la 20th Century Fox fece causa a Ippolito e la perse proprio per questo motivo. Così, quando nel 1984 venne messo in cantiere il vero sequel del capolavoro di Scott, sorse il problema di come intitolarlo, perché Alien 2 non si poteva più usare, essendo il titolo del film di Ippolito che, nel frattempo, era stato distribuito in tutto il mondo (con risultati economici nemmeno disprezzabili). A James Cameron, sceneggiatore e regista del film, venne in mente un’idea semplice: non più Alien, alieno, ma Aliens, alieni. L’idea era brillante per vari motivi. Risolveva la questione Ippolito, era una via elegante per intitolare un film senza utilizzare i numeri, che da sempre facevano bollare i sequel come opere derivative e dozzinali, raccontava il tema del film (non più uno ma molti) e dava l’idea della scala di maggior spettacolarità della pellicola. C’era solo il pericolo che il grande pubblico non capisse, ma si decise di correre comunque il rischio.
E il pubblico capì. Aliens fu un ottimo successo mondiale e, da quel momento in poi, Hollywood aggiunse il “trucchetto del plurale” alla sua cassetta di attrezzi comunicativa. Nel corso degli anni, abbiamo avuto vari franchise che hanno usato questo espediente (tra cui Predator) e oggi lo stesso meccanismo viene impiegato per rinfrescare l’IP di Twister, film del 1996 diretto da quel genio dell’action di Jan de Bont, interpretato da Bill Paxton (in uno dei suoi rari, purtroppo, ruoli da protagonista) e Helen Hunt, basato su un’idea di Michael Crichton e, non a caso, prodotto da Steven Spielberg e la sua Amblin (che con Crichton aveva realizzato qualche piccolo successo, come Jurassic Park e la serie televisiva di E.R.). Il film del 1996, costato cento milioni, incassò quasi mezzo miliardo, venendo amato molto dal pubblico (meno dalla critica del tempo) ma, stranamente, non si pensò di farne un sequel. Forse perché la scrittura del film e poi la sua lavorazione furono molto complesse e costellate di incidenti, problemi e false partenze, forse perché Spielberg sentiva una certa affinità tematica tra la pellicola di Jan de Bont e il suo Lo Squalo, e sapeva bene quanto i sequel de Lo Squalo (che lui non aveva mai voluto) fossero film non necessari e, a tratti, anche ridicoli, forse perché, semplicemente, nessuno trovò l’idea giusta.
Fatto sta che nel 2020, qualcuno disse: facciamo un nuovo film. E quel qualcuno era Helen Hunt, che si propose per scriverlo e dirigerlo. Il suo progetto venne però bocciato in quanto si voleva realizzare più uno “stand alone sequel” (cioè, un sequel che poteva essere fruito anche senza aver visto il capitolo originale) che un sequel diretto (come era quello della Hunt) e si andò a bussare alle porte di Joseph Kosinski (Top Gun: Maverick) e Mark L. Smith (The Revenant), per quanto riguardava la storia e lo script, di Lee Isaac Chung (Minari) per la regia e di Daisy Edgar-Jones (Normal People) e Glen Powell (Top Gun: Maverick, Hit Man) per i ruoli da protagonisti.
E oggi eccoci qui, con il film nelle sale, a sbancare l’estate americana.
Il film è presto detto: una giovane e un poco secchiona inseguitrice di tornado vede tutti i suoi amici e il suo fidanzato venire uccisi da una gigantesca tromba d’aria. Resta psicologicamente distrutta e si trasferisce a fare la meteorologa in città. Il destino però la costringerà ad affrontare le sue paure. Sul suo cammino, incontrerà pure uno scienziato cowboy, che i tornado non solo li insegue ma li “doma” e, insieme, faranno ogni genere di scintilla possibile.
Ad arricchire questo plot abbastanza scontato, una blanda tematica ecologista, una ugualmente blanda critica politico-sociale all’economia della “shock and awe” e una celebrazione degli USA rurali e operai che badano a loro stessi con le loro forze.
A leggere queste ultime righe si potrebbe pensare che il film sia un banalissimo blockbuster a tema disastri naturali come tanti, e lo sarebbe pure se non fosse che, in primo luogo, di banalissimi blockbuster ormai non se ne fanno più molti, e che questo è realizzato molto bene.
Lo script è semplice e si affida a tutta una serie di archetipi narrativi consolidati, e nella sua linearità funziona perfettamente, senza intoppi, senza incertezze, senza lungaggini o incoerenze. I personaggi sono ben delineati e costruiti: è facile capirne le motivazioni, il carattere e il loro valore simbolico nel contesto narrativo e, soprattutto, sono tutti facili da amare (questo è merito anche di un ottimo reparto attoriale molto a fuoco, dove su tutti svetta un Glen Powell sempre più sicuro dei suoi mezzi e del suo fascino). La colonna sonora è forse scontata ma trascinante (hard rock e country, ovviamente), la fotografia riesce a catturare benissimo la bellezza agricola degli Stati Centrali americani, la sua vastità e il suo mistero e il montaggio sa quando comprimere e farsi frenetico, ma pure quando mollare la presa e distendersi. In generale, elegante la regia, che pur servendo bene l’aspetto spettacolare del film, non si scorda mai che senza un essere umano a schermo a fare da scala per la misura del disastro, nulla funzionerebbe.
Quindi, a stringere, un ottimo film classico, con una storia non offensiva per l’intelligenza, una regia intelligente ed empatica, belle immagini e un cast azzeccato.
Si può chiedere di più da un blockbuster estivo? Direi di no.
Aggiungo una personale nota di merito per il film: è una delle poche pellicole recenti che non dipinge il classico abitante delle campagne americane come un puro e semplice bifolco con la bandiera in una mano e, nell’altra, un fucile. Che Hollywood abbia imparato che insultare costantemente metà della nazione non è poi un’idea così buona?
Vedremo.
Comunque sia, andatelo a vedere, vi divertirete e neanche poco.